Parigi, 1905-1925, festa mobile e meticcia del Moderno
Paul Poiret, Atelier Martine, corpetto Les Fleurs e berretto, circa 1915, Musée de la Mode de la Ville de Paris, Palais Gallier
Alias Domenica

Parigi, 1905-1925, festa mobile e meticcia del Moderno

A Parigi, Petit Palais Le etichette Belle Époque e «Années Folles» rischiano di imbalsamare: la mostra documenta le energie creative incrociando e aprendo...
Pubblicato 9 mesi faEdizione del 3 marzo 2024

«Se sei abbastanza fortunato d’aver vissuto a Parigi da giovane, allora, per il resto della tua vita, ovunque andrai, questo ti accompagnerà»: così scriveva Hemingway nel 1924, durante un soggiorno parigino, nel suo diario, poi trasformato, e pubblicato postumo quarant’anni dopo nel celebre racconto autobiografico Festa mobile. Quelle parole evocavano già perfettamente la funzione quasi iniziatica che la capitale francese aveva avuto per tutta una generazione di giovani artisti nei primi due decenni del secolo scorso.

Vent’anni di progressi artistici, culturali, sociali, come raramente se n’erano visti nel passato, durante i quali la città cambia improvvisamente ritmo, un ritmo che diventa sincopato, come quello del jazz nascente, che non dà respiro e che travolge tutto sul suo cammino: l’accademismo, le convenzioni sociali, lo status quo, le relazioni di genere. E tutto si reinventa ogni giorno, come se quel giorno fosse il primo, o forse l’ultimo, di una nuova era. Parigi incarna così il punto di fuga verso il quale convergono nuove energie umane e artistiche provenienti da tutto il mondo, capaci di dar vita a una nuova prospettiva, quella della modernità.

A questo tema è dedicata la mostra parigina Le Paris de la modernité. 1905-1925, curata da Annick Lemoine e Juliette Singer (il catalogo, ottimamente orchestrato, Éditions Paris Musées) e visibile al Petit Palais, fino al 14 aprile, chiudendo così idealmente un ciclo inaugurato dieci anni fa con l’esposizione Paris 1900.

L’intento della mostra è quello di superare le convenzionali e restrittive etichette della Belle époque e degli Années folles, generalmente assegnate a questo arco di tempo, allargando il ventaglio delle possibilità. Concepita secondo un andamento insieme cronologico e tematico, la mostra è una sorta di immersione attraverso diversi ambiti creativi: belle arti, cinema, teatro, danza, musica, letteratura, fotografia, moda. La moda, per dire, annovera un’intera sezione dedicata a «Poiret le magnifique».

Il percorso si sviluppa su tre momenti forti – prima, durante e dopo la Prima Guerra mondiale – e undici capitoli, che vanno dalla celebre cage aux fauves del Salon d’Automne del 1905 all’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes del 1925.

Due sono le colonne tematiche sulle quali poggia l’architettura del percorso: i luoghi e le personalità. La mostra apre con la geografia di un tempo nuovo dell’arte. Si comincia con due luoghi mitici della creatività parigina: il Bateau-Lavoir et la Ruche. Il primo, un ex-lavatoio sulla collina di Montmartre trasformato in un insalubre atelier collettivo, dà rifugio fin dai primi anni del secolo a numerosi giovani artisti squattrinati e ambiziosi provenienti da mezza Europa, come lo spagnolo Picasso, il rumeno Brancusi, l’italiano Modigliani. La frequentazione quotidiana genera sinergie. Si scambiano idee, modelli, amori, amicizie. Soprannominato la Villa Medici della pittura moderna, il Bateau-Lavoir si trasforma rapidamente da atelier a buon mercato a vivaio dell’avanguardia. È qui infatti che nel 1907 Picasso concepisce Les demoiselles d’Avignon. Qualche anno dopo questo ruolo sarà recuperato progressivamente dalla Ruche, un immenso edificio in legno a forma d’alveare (la ruche, appunto, in francese) situato nella parte opposta della città, nel quartiere di Montparnasse. Il luogo è malsano ma dà ristoro ad artisti, francesi e stranieri, nella miseria, offrendo una sponda ambientale nella quale condividere la propria arte.

A partire da questo momento, la creazione artistica si declina sempre al plurale, è il frutto di un’esperienza condivisa, negli atelier, nei caffè (alcuni oramai mitici come Le Dôme, La Coupole, La Closerie des Lilas), nelle accademie libere, nei Salon. A quello più accademico, ereditato dal XIX secolo, se ne aggiungono ormai altri, capitanati dal precoce Salon d’Automne, creato nel 1903, che ai tradizionali generi della pittura e della scultura affianca ora anche la fotografia e la grafica. È qui che nel 1905, sulle pareti della sala VII, prende forma, quasi come un manifesto, la prima avanguardia del secolo, quella dei fauves, di cui la mostra restituisce tutta la forza espressiva del colore «selvaggio». Poi vi esporranno il Doganiere Rousseau, Matisse, Picasso, presente quest’ultimo fino al 1909, preferendo in seguito affidarsi, insieme all’amico Braque (che era stato spesso rifiutato), esclusivamente al mercante tedesco Daniel-Henry Kahnweiler. Solo due anni più tardi i loro emuli (Delaunay, i fratelli Duchamp, Metzinger, Gleizes) torneranno al Grand Palais incontrando l’interesse della critica.

Pablo Gargallo, Kiki de Montparnasse, 1928, Musée d’art moderne de Paris

Mano a mano che i Salon si internazionalizzano (si conta il 48 per cento di artisti stranieri nel 1913), le opere conquistano progressivamente il quartiere degli Champs-Elysées, a pochi passi dal Petit e dal Grand Palais, dove si tenevano tutti i saloni artistici. Fioriscono numerose gallerie, che offrono una vetrina a tutti gli «ismi» dell’avanguardia. È da Bernheim-Jeune che espongono i futuristi nel febbraio 1912. A Parigi scoprono il cubismo e lo integrano nella loro riflessione artistica, come mostra l’imponente dipinto di Gino Severini La Danse du Pan-Pan au Monico, versione aggiornata del Bal au Moulin de la Galette di Renoir. Parigi diventa così una sorta di incubatrice, dove si mescolano uomini e donne (non così evidente per l’epoca), idiomi, utopie, stili diversi, nella quale la modernità non è incarnata dalla tradizione pittorica francese, ma dal linguaggio misto, che nasce dall’innesto di tante tradizioni artistiche straniere nell’humus fertile della Ville Lumière. Qui nulla si distrugge, tutto si trasforma. Il concetto d’arte nazionale scompare per far spazio a quello di modernità, che non ha bisogno di passaporto.

E la modernità a Parigi è visibile non solo nei saloni artistici ma anche in quelli legati alle innovazioni tecnologiche, sempre più numerosi, che contribuiscono a infondere il mito della velocità e della macchina. Come documenta in modo spettacolare l’esposizione, i nuovi eroi dell’epoca si chiamano Wilbur e Orville Wright, che nel 1903 effettuano il primo viaggio motorizzato; François Blériot, costruttore-pilota che nel 1909 vola per la prima volta sopra la Manica; Ettore Bugatti, pioniere dell’industria automobilistica. Guardando a questi nuovi eroi, gli artisti barattano oramai i miti dell’antichità con quelli della modernità. E così, nel 1912, di ritorno da una visita al salone dell’aeronautica, issando una ruota di bicicletta su un trespolo Duchamp crea il suo primo totem.

E poi scoppia la guerra. Molti artisti partono volontari, alcuni tornano feriti, come Apollinaire e Cendrars, altri si nascondono, come Picasso, altri ancora, come Modigliani, sono costretti a restare per la salute malferma. Le manifestazioni patriottiche organizzate dalle autorità cercano di esaltare le vittorie francesi oppure di umiliare il nemico che distrugge il patrimonio nazionale, com’è visibile nelle immagini dell’improbabile quanto macabra Exposition d’œuvres d’art mutilées, organizzata al Petit Palais nel 1916.
L’atrocità della guerra si mostra anche attraverso le maschere a gas, che fanno la loro apparizione sui volti cubisti di Marevna e Grosz. Si spara fino alle porte di Parigi, ma per non sentire quel suono terrificante la città sembra vivere ancora più forte. La vita non si ferma. I teatri, i caffè, l’Opéra, i cinema (bellissimi gli archivi della Fondazione Pathé presenti in mostra) sono pieni e animati: per sopravvivere bisogna evadere, come si può.

Alla firma dell’armistizio Parigi esplode, questa volta di gioia. È l’inizio di una delirante festa sociale, fatta di balli (leggendari il Bal nègre e il Bal svédois) e di riviste (all’onore, in mostra, quella di Joséphine Baker), che contribuiscono anche alla diffusione di nuovi comportamenti sociali, all’emancipazione della donna, mai più così libera fino alla fine del secolo. Contro ogni forma di esclusione, la mostra restituisce l’immagine di un’epoca e di una città capaci di accogliere le più diverse espressioni di energia creativa, per farne patrimonio comune: rigenerante, ispirante.

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