Pankaj Mishra, l’impostura, prezzo della scalata sociale
«L’idea della ricerca della felicità è il vero motivo per cui molti di coloro che stanno al di fuori o alla periferia di questa civiltà ne sono attratti. È un’idea elastica, valida per tutti. In sé racchiude molto: l’idea di individuo, responsabilità, scelta, la vita dell’intelletto, l’idea di vocazione, perfettibilità e realizzazione. È un’idea umana immensa. Non si può ridurre a un sistema rigido; non può generare fanatismo. Comunque si sa che esiste, e in virtù di questo, alla fine, altri sistemi più austeri saranno spazzati via»: con queste parole, V.S. Naipaul concludeva Lo scrittore e il mondo, un corposo reportage di viaggi attraverso i cinque continenti, auspicando l’avvento di una «civiltà universale» libera dal retaggio di riti e di miti e costruita a misura di individui laici, desideranti e, in virtù di questo, proiettati verso la piena realizzazione di sé.
Nel racconto impietoso di un pianeta sempre più diviso tra centri metropolitani e Sud Globale confluivano lo schietto etnocentrismo dello scrittore indo-caraibico, naturalizzato britannico, e vincitore del Nobel nel 2001, e un’incrollabile fiducia nella superiorità del liberalismo occidentale che, negli anni Novanta del Novecento, era stata già stata ampiamente smentita dalla storia. Proprio intorno al fascino ingannevole di questo mito ruota Figli della nuova India, il secondo romanzo dell’indiano Pankaj Mishra (già curatore del reportage di Naipaul), appena uscito da Guanda nella accurata traduzione di Maria Federica Oddera (pp. 352, € 19,00).
Dopo un romanzo di formazione pubblicato due decenni fa (I romantici) e pluripremiati saggi di storia e attualità, incluso un pregevole studio sul Buddhismo (La fine della sofferenza), Mishra torna alla fiction con un’opera tematicamente ed emotivamente densa, che anatomizza il disincanto di una generazione di intellettuali indiani irretiti dalle energizzanti promesse della globalizzazione.
Arun, Aseem e Virendra, tre ragazzi di bassa casta, accaniti lettori di Naipaul e altrettanto determinati a sfuggire al vittimismo e a farsi strada nel mondo, stringono amicizia al Politecnico di Delhi negli anni Ottanta. Dopo lunghe privazioni e indicibili abusi subiti da parte di compagni di estrazione sociale più elevata, facilitati dai venti di cambiamento che spirano nella nuova società indiana, i tre sembrano finalmente realizzare l’«imperativo esistenziale di cancellare il passato» attraverso una scalata che li conduce in tempi e modi diversi ai vertici della piramide sociale. Senonché, non per tutti l’impatto col mondo competitivo e ultrasocial delle élite cosmopolite si rivela congeniale. Mentre Aseem e Virendra si tuffano nella frenesia imprenditoriale e sessuale della nuova India, Arun – che prevedibilmente è anche il narratore della storia – soffre della sindrome dell’impostore, fino a quando, dopo un soggiorno londinese al seguito di una ricca attivista di famiglia musulmana (Alia), decide di abbandonare tutto e ritirarsi in un monastero buddhista al confine col Tibet.
«Nel bel mezzo di quella vita voluttuosa vicina alla perfezione, avevo cominciato a provare orrore per me stesso, per la mia pressoché totale incapacità di collegare e armonizzare il passato col presente… partito dal niente a Deoli, mi stavo rendendo conto con sempre maggior chiarezza di essere diventato troppo bravo con le mie improvvisazioni da palcoscenico, che portavano con sé un gravoso fardello di ipersensibilità al giudizio altrui, mentre in realtà volevo passare del tutto inosservato».
Mishra è abilissimo nel tratteggiare il contrarsi dell’originario impulso espansivo in un sentimento di rifiuto – efficacemente evocato dal titolo inglese, Run and Hide («Scappa e nasconditi») – che porta il self-made man indiano dai pretenziosi cenacoli post-Brexit a uno sperduto villaggio della catena himalayana, inghirlandato dalle nevi perenni e da una natura lussureggiante. Quantunque ben congegnata, l’inversione del paradigma della success story non è l’elemento più originale del romanzo, che risiede piuttosto in una combinazione iperrealistica di monologo drammatico e scrittura epistolare. Per tutto il tempo, infatti, Arun si rivolge a una interlocutrice silenziosa (che soltanto molto tardi si scopre essere Alia), la cui presenza al tempo stesso ossessiva e spettrale confonde le acque, mettendo alla prova l’immaginazione di chi legge con passaggi continui dall’io al tu al noi. L’invenzione narrativa è tutta racchiusa nel valore di questa stilizzazione che, forse non casualmente, accomuna Figli della nuova India a un altro romanzo generazionale imperniato sul crollo del sogno americano accarezzato dai giovani asiatici: Il fondamentalista riluttante di Moshin Hamid (2007). In entrambi i casi, la manomissione dei dispositivi del realismo distanzia i personaggi e ne mina quel senso di stabilità e sicurezza che è tanto agognato quanto inattingibile per chi vive nei paesi in transito tra vecchio e nuovo, sopraggiunti alla modernità quando questa si è già trasformata in una minaccia che rischia di annientare tutti i residui di coesione sociale e ambientale.
Il fatto che Arun sia un traduttore formato alla scuola dei grandi romanzieri (Balzac, Turgenev, Tolstoj, Naipaul, Roth, Updike), per di più consapevole di non poter «valicare l’abisso emotivo che separa l’hindi dall’inglese», dà la misura dell’importanza assegnata alle crepe – comunicative, culturali, sociali, generazionali – dall’universo narrativo di Mishra.
Nelle pieghe di un racconto tenuto in costante tensione tra lirismo e cinismo e pervaso di letterarietà, Figli della nuova India evoca tutta l’ambiguità morale, nonché la cifra profondamente grottesca, di personaggi che, nel migliore dei casi, agiscono sulla spinta di un desiderio mimetico in grado di condannare poveri e ricchi a un perpetuo ressentiment e, nel peggiore, annaspano per restare a galla in una società globalizzata prima ancora di diventare democratica. Una società che alimenta divisioni politiche e religiose mentre forza le persone a entrare in una «competizione universale» per la quale non sono minimamente attrezzate – come Mishra ha scritto in un saggio illuminante pubblicato con il titolo L’età della rabbia.
Se la rinuncia alle «abitudini mentali nocive», generate dal narcisismo di un mondo iperconnesso, imprime all’intreccio un singolare andamento entropico e meditativo, il gioco iconoclasta di voci e sguardi, abilmente manovrato dal narratore, smaschera l’illusione di poter sfuggire alla prigione dell’io offerta dal Buddhismo. Con Figli della nuova India, Mishra riapre così un percorso artistico interrotto e molto attuale, che affida al linguaggio del romanzo una complessità e un’istanza di verità inaccessibili ad altre scritture.
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