Panama insorge contro il ricatto estrattivista di Cortizo
Lotta popolare No allo sfruttamento della più grande miniera di rame a cielo aperto del Centro America in una delle aree più ricche di biodiversità al mondo. La protesta ottiene lo stop a nuovi contratti, ma non basta
Lotta popolare No allo sfruttamento della più grande miniera di rame a cielo aperto del Centro America in una delle aree più ricche di biodiversità al mondo. La protesta ottiene lo stop a nuovi contratti, ma non basta
Fino allo scorso anno, Panama non aveva mai conosciuto grandi proteste popolari. Ma la popolazione ha imparato in fretta. Se nel luglio del 2022 era stato l’aumento del prezzo degli alimenti, delle medicine e dei combustibili deciso dal governo di Laurentino Cortizo a scatenare la rabbia della cittadinanza, a riaccendere ora il fuoco della protesta – e con molta più forza di allora – è stata la firma del nuovo contratto minerario tra il governo e l’impresa Minera Panamá, filiale della canadese First Quantum Minerals.
Minacce, repressione, criminalizzazione della lotta sociale – la scontata risposta del governo Cortizo alle mobilitazioni – non sono riuscite ad arginare le proteste, che si susseguono ininterrottamente da più di 10 giorni con un duplice obiettivo: una moratoria totale dell’attività mineraria e, soprattutto, la revoca della legge 406, che autorizza la Minera Panamá a sfruttare per altri vent’anni, prorogabili per ulteriori venti, quella che è la più grande miniera di rame a cielo aperto dell’America Centrale. In un territorio di 12mila ettari all’interno della provincia caraibica di Colón, a circa 120 chilometri dalla capitale, appartenente al Corridoio biologico mesoamericano, una delle aree più ricche di biodiversità al mondo.
Il primo obiettivo è stato solo in parte raggiunto: dopo l’annuncio del presidente sulla sospensione di nuove concessioni minerarie nel Paese, l’Assemblea nazionale ha dato il via libera in seconda (e penultima) lettura al divieto a tempo indeterminato di ogni concessione futura per attività legate allo sfruttamento, all’estrazione e al trasporto di minerali metallici in tutto il territorio nazionale. Lasciando però intatte le 15 concessioni già rilasciate.
Quanto all’altro, e decisivo, obiettivo, la lotta è tutt’altro che finita. Se in prima lettura il parlamento aveva approvato la revoca della legge 406, l’articolo in questione è stato poi ritirato. E, in assenza di ripensamenti da parte dei parlamentari, non è affidabile nessuna delle due strade ancora aperte: la dichiarazione di incostituzionalità della legge da parte della Corte suprema (la quale si era già espressa in tal senso sul precedente contratto minerario, ma senza poi curarsi che la sentenza venisse rispettata) e un referendum nazionale come quello che Laurentino Cortizo aveva deciso di indire per il 17 dicembre, prima che il Tribunale elettorale escludesse che vi fossero «al momento» le «condizioni per organizzare la prevista consultazione popolare».
Una mossa, quella del presidente, dettata non da un’improvvisa conversione alla democrazia partecipativa, ma, come ha denunciato l’Alianza Pueblo Unido por la Vida (una coalizione di organizzazioni sindacali, studentesche e popolari in difesa dell’ambiente), dalla speranza di poter convincere la popolazione con un ricatto: subordinando cioè il miglioramento delle pensioni, la sostenibilità del Fondo di previdenza sociale e gli investimenti nell’istruzione all’approvazione del contratto minerario.
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