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Palmiro Togliatti, una lezione da riscoprire

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Togliatti Il 26 marzo del 1893 nasceva a Genova Palmiro Togliatti, il massimo esponente del comunismo italiano assieme ad Antonio Gramsci, che era di soli due anni più grande, ma di cui Togliatti si considerò sempre un allievo, oltre che un amico e un compagno di lotta.

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 27 marzo 2021
Alexander HöbelFutura umanità

A tanti anni di distanza anche dalla sua scomparsa, e dopo una lunga fase di damnatio memoriae, a partire almeno dal 50° anniversario della morte, nel 2014, una rilettura della sua opera si sta affermando anche sul piano storiografico.

Una recente biografia ne mette in luce il forte realismo (quel realismo che ha le sue radici in un classico del pensiero politico come Niccolò Machiavelli). Né sono mancati volumi che hanno messo in luce, da un lato, la continuità della sua opera in relazione al tema della democrazia italiana; dall’altro, il suo ruolo nella vicenda del comunismo internazionale del XX secolo, che ne fa per certi versi un “leader globale” ante litteram.

E tuttavia, per infelice paradosso, proprio nel momento in cui la figura di Togliatti viene giustamente rivalutata sul piano storiografico, la sua lezione appare largamente dimenticata sul terreno politico. Ed è invece proprio dell’attualità politica di molti suoi insegnamenti che vorrei soffermarmi.

Una lezione di metodo

In primo luogo, proprio sul terreno del metodo. T

ogliatti è un politico realista (di un realismo che non degenera mai in becero pragmatismo e nella politica del giorno per giorno, ma tiene sempre fermo l’obiettivo strategico della trasformazione radicale dello stato di cose presente) perché il punto di partenza di ogni sua presa di posizione è sempre, leninisticamente, l’analisi concreta della situazione concreta, la valutazione fredda e razionale dei rapporti di forza, del contesto oggettivo (internazionale e nazionale) e delle condizioni soggettive: un’analisi che non è mai schematica o statica, ma sempre dinamica e differenziata, volta cioè sempre a cogliere le specificità, i mutamenti, le contraddizioni (anche nel campo degli avversari oltre che dei possibili alleati); una impostazione agli antipodi di quella bordighiana, che metteva in luce piuttosto gli elementi invarianti della situazione, con effetti spesso nefasti per l’azione politica (per cui ad esempio, si sottovalutò il fascismo poiché lo si considerò solo un altro governo della borghesia, si mettevano nello stesso calderone tutte le forze non proletarie ecc.).

Il metodo di Togliatti, invece, dialettico nella sua essenza filosofica e dunque profondamente marxista, era anche quello che consentiva di intervenire più efficacemente sul piano politico: egli non parte mai “da sé”, dai propri desideri, da come appunto ci si immagina o si vorrebbe fosse la realtà, ma neanche da sé nel senso collettivo di gruppo o organizzazione, ma piuttosto sempre dalla realtà stessa nella sua complessità, e in base ad essa articola di volta in volta le sue strategie e proposte politiche.

Togliatti muove dalla realtà e dalla dura analisi dei rapporti di forza e dei margini concreti per un’azione efficace (volta cioè sempre alla politica più che alla propaganda), e al tempo stesso muove da un preciso punto di vista: quello degli interessi storici dei lavoratori salariati, dei proletari, e delle classi popolari, ossia della grande maggioranza della nazione (e dell’umanità).

Relazionando – e direi subordinando – l’azione del Partito a tali interessi, le sue proposte riescono a cogliere la priorità del momento storico (esemplare in tal senso la svolta di Salerno del 1944 che, individuando come priorità la liberazione del Paese dal nazifascismo, e ritenendo necessaria a tal fine la massima unità, subordina ad essa ogni spirito di parte, ogni tentazione di rivincita e ogni patriottismo di partito), ma nel fare ciò – nel cogliere cioè quale sia l’interesse preminente del proletariato come classe generale in un preciso momento – non solo rende possibile alle masse resistere e vincere, ma porta al Partito stesso quel prestigio e quella forza che scelte diverse, dettate da una concezione ristretta dell’interesse di classe o di partito, non gli avrebbero mai portato.

Rivoluzione in Occidente, socialismo e democrazia

Il secondo tema è quello dell’idea di transizione, di rivoluzione in Occidente, che anima Palmiro Togliatti, e dunque il tema del nesso strettissimo, direi del legame organico tra democrazia e socialismo. Anche qui la sua è una riflessione che parte da lontano, almeno dagli anni Venti.

Nel dibattito del gruppo dirigente del Partito comunista d’Italia sulle strategie per abbattere il fascismo e su ciò che lo avrebbe sostituito, era quasi naturale l’idea che il fascismo sarebbe stato abbattuto da una rivoluzione proletaria che avrebbe messo all’ordine del giorno la trasformazione socialista del Paese.

A partire dal 1927, sulla scorta della riflessione gramsciana sulla Costituente (l’“Assemblea repubblicana costituente sulla base dei comitati operai e contadini” lanciata nel 1925, rimasta come parola d’ordine del Partito e poi messa in discussione dai giovani Longo e Secchia) , Togliatti lucidamente mette in discussione tale certezza e parla dell’esistenza di ameno due possibili prospettive per scalzare il fascismo: oltre a quella della rivoluzione proletaria socialista, quella di una rivoluzione popolare antifascista che, basandosi su uno schieramento sociale più vasto e composito, avrebbe potuto mettere all’ordine del giorno non il socialismo ma una repubblica democratica più avanzata di quella prefascista.

È una riflessione che Togliatti sviluppa nel decennio successivo, allorché tale ipotesi acquista maggiore concretezza, con la rivoluzione spagnola che dà vita appunto, secondo la sua definizione, a una democrazia di tipo nuovo, e più in generale con la svolta storica dei Fronti popolari antifascisti sancita dal VII Congresso dell’Internazionale comunista.

Ed è questo, in effetti, lo scenario nel quale si sviluppa la Resistenza italiana nel 1943-45, con i comunisti che riescono a svolgere un ruolo di avanguardia effettivo, superando ogni tipo di esclusivismo e settarismo, e ponendo all’ordine del giorno una prospettiva unitaria, in grado di raccogliere il consenso della grande maggioranza delle forze antifasciste e del popolo italiano.

L’idea già maturata in Spagna di una democrazia di tipo nuovo, che tagliasse le radici strutturali del fascismo (colpendo grande proprietà terriera e grandi monopoli, costruendo uno Stato in cui le classi lavoratrici fossero egemoni e che fosse dotato di leve economiche effettive nel settore dell’industria come in quelli dell’agricoltura e del credito), si saldava così a quella di un percorso che poneva le basi e apriva le porte al socialismo, nell’ambito però di un processo molto più articolato di quello che si era verificato nella Russia del 1917.

Sono questi i presupposti su cui Ercoli fonda, nel 1944, la sua svolta di Salerno: unità nazionale antifascista per liberare il Paese, Assemblea costituente subito dopo la guerra, prospettiva di una democrazia di tipo nuovo, popolare perché basata sul superamento dello Stato liberale monoclasse, e progressiva perché posta nelle condizioni di estendersi e concretizzarsi sempre di più; riforme di struttura per mutare i rapporti di proprietà e con essi i rapporti di forza tra capitale e lavoro; e partito nuovo, di massa, nazionale e internazionalista, in grado di fare politica e non più propaganda – ossia di proporre soluzioni praticabili sulle grandi problematiche del Paese – come strumento fondamentale per dare le gambe a tale progetto, che sarà peraltro largamente recepito dalla Costituzione repubblicana.

In questo senso, la sua opera – com’è stato osservato – è quella di un “rivoluzionario costituente”. La sua è un’idea del rapporto democrazia-socialismo in gran parte inedita, sebbene fondata sul concetto marxiano del socialismo come potere della grande maggioranza per la grande maggioranza.

Una concezione che, nella seconda metà del Novecento, ha dovuto affrontare i contraccolpi e le contromisure degli avversari, oltre che i limiti imposti dalla guerra fredda e dalla collocazione internazionale dell’Italia, ma che rimane vitale e feconda, e non a caso viene riecheggiata in contesti del tutto diversi in cui si pone il tema del socialismo nel XXI secolo, proponendo schieramenti di classe compositi (e talvolta fronti ampli), in cui le classi lavoratrici e le loro organizzazioni svolgono un ruolo di avanguardia, e sistemi economici misti, in cui la parte socializzata delle forze produttive è tuttavia egemone.

Togliatti, anche sulla scorta dei Quaderni di Gramsci che ebbe modo di leggere durante la guerra, è dunque un punto di riferimento essenziale per quel dibattito sulla transizione al socialismo in società complesse, sulla costruzione di una società nuova basata sul consenso e sulla partecipazione delle grandi masse, che è tuttora, sia pure in forme nuove, all’ordine del giorno.

Policentrismo e prospettiva globale

L’altro elemento che ci parla dell’attualità del pensiero togliattiano è il nesso tra questione nazionale e internazionalismo che sempre lo caratterizzò, e in tale quadro quella intuizione del mondo policentrico – multipolare, diremmo oggi – che avanza a partire dal 1956.

In realtà già nel 1949 commentando la nascita della Repubblica popolare cinese con un lungo saggio in quattro puntate su “Rinascita”, il leader del Pci aveva messo in luce l’importanza decisiva di tale svolta storica. Pochi mesi dopo, in un discorso alla Camera, ne parlò come della «più profonda trasformazione della struttura del mondo dalla rivoluzione d’ottobre in poi».

Ma era il risveglio dei popoli coloniali in generale ad apparirgli come «uno dei più grandi, forse il più grande fatto nuovo» del secondo dopoguerra . Questa svolta faceva sì che, accanto ai paesi socialisti e alla «classe operaia delle metropoli dell’imperialismo», un terzo elemento, le lotte di liberazione dei «popoli coloniali e semicoloniali», concorreva a costituire «un’azione generale unica per la vittoria del socialismo nel mondo».

Ne derivavano anche forme e concezioni nuove dell’internazionalismo, che sempre più andavano oltre i vecchi confini e richiedevano al movimento comunista una rinnovata capacità unitaria, stavolta su scala globale, oltre alla piena assunzione del tema delle vie nazionali e della molteplicità delle vie al socialismo.

È proprio per questa concezione, del resto, che Togliatti criticherà aspramente gli attacchi di Mao Zedong all’Urss e allo stesso movimento comunista occidentale, ribadendo al contrario la necessità di “un vero e reciproco contatto e appoggio tra questi due grandi fronti della lotta”.

Il mondo policentrico e la stessa crescita del movimento comunista su scala globale richiedevano peraltro, nella sua concezione, che lo stesso comunismo internazionale diventasse policentrico; di qui la grande attenzione e la crescente intesa che il Pci doveva avere verso le altre forze del movimento operaio e comunista europeo.

L’Occidente «è in ritardo di una rivoluzione» – scriveva nel 1959 – e una «sinistra europea […] ha davanti a sé una prospettiva soltanto se ha il coraggio di affrontare i temi di una profonda riforma delle strutture», ossia del superamento degli assetti capitalistici. Un problema, come è noto, ancora aperto.

Infine, nel sottolineare l’attualità di Togliatti credo vada citata la sua sensibilità verso quelli che si chiameranno i problemi globali, a partire in particolare dal tema della pace, cogliendo fin dal ’45 il peso della tremenda novità costituita dall’arma nucleare, che rendeva possibile «la distruzione completa della civiltà umana» da parte «di un imperialismo aggressivo», il che riproponeva in forme nuove l’alternativa tra socialismo e barbarie.

L’appello al mondo cattolico del ’54 per la salvezza della civiltà umana, riproposto poi nel discorso del ’63 Il destino dell’uomo che, anticipando di poche settimane l’enciclica Pacem in terris, dialoga esplicitamente con papa Giovanni XXIII, ci mostrano appunto un leader nazionale e internazionalista, dotato di un approccio profondamente globale nel rilanciare l’universalismo concreto del marxismo, ponendo il suo partito e il movimento comunista nel suo complesso in grado di confrontarsi con le altre forze protagoniste dello scenario internazionale.

Una ispirazione, questa, che in diverse latitudini del mondo i comunisti (si pensi in particolare ai comunisti cinesi, al progetto di “nuova via della seta” e al tour europeo di questi giorni del presidente Xi Jinping) sembrano non aver dimenticato, e su cui anche in Italia c’è bisogno di tornare a riflettere.

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Pubblicato originariamente su sinistraineuropa.it

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