Mentre nella notte tra mercoledì e giovedì il presidente del Pakistan Arif Alvi firmava la richiesta di scioglimento del parlamento avviando il processo che deve portare al voto, in una cella di Attok, piccola prigione militare isolata a 85 chilometri da Islamabad, si concludeva la parabola politica di Imran Khan.

ARRESTATO lo scorso sabato su mandato del tribunale in seguito a un esposto della Commissione elettorale, il leader del partito Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) si è visto comminare tre anni di carcere ma anche l’esclusione per cinque anni da ogni carica pubblica, come reso noto dal tribunale il giorno prima che il premier uscente, Shehbaz Sharif, chiedesse lo scioglimento delle Camere.

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Il passo, che prevede un governo a interim per la loro preparazione, apre la strada a elezioni tra tre mesi anche se il condizionale è d’obbligo per vari problemi tra cui censimento e voto digitale. Ma la vera notizia è che Imran Khan non potrà candidarsi.

Non si può dargli torto se dietro una serie di coincidenze Khan vede una macchinazione a suo danno, visto che nelle ultime elezioni (2018) è stato il suo partito ad arrivare primo, consegnandogli lo scranno di premier (da cui è stato sfiduciato l’anno scorso).

Inoltre mercoledì, The Intercept – webmagazine di inchiesta statunitense – ha pubblicato un documento «segreto» del marzo 2022 inviato dall’ambasciatore del Pakistan a Islamabad in cui il Dipartimento di Stato Usa – come Khan ha sempre sostenuto – incoraggiava il governo a rimuoverlo da premier per la sua neutralità sull’invasione dell’Ucraina.

«IL CABLOGRAMMA – scrive il magazine – rivela carota e bastone del Dipartimento di Stato contro Khan, promettendo relazioni più amichevoli se fosse stato rimosso e, al contrario, isolamento». Documento che Shehbaz Sharif ha respinto al mittente.

Certamente Imran Khan ha fatto di tutto per non ingraziarsi i giudici, rinviando sine die le udienze cui era chiamato a rispondere per i più svariati motivi e facendosi scudo della piazza per evitare le manette.

Poi però la macchina dello Stato ha battuto un colpo: arresti di massa e tribunali militari per giudicare i suoi facinorosi supporter che – ogni volta che Khan doveva andare a processo – organizzavano manifestazioni in favore del leader corredate anche da attacchi agli uffici delle forze dell’ordine.

Eliminati vertici del partito e sostenitori, è stata la volta di Khan. E almeno per ora un partito decimato e senza capo non è riuscito, come altre volte, a mobilitare la piazza se non con azioni sporadiche.

Ma eliminare Khan, il rivale per eccellenza delle due grandi famiglie politiche del Pakistan (gli Sharif della Lega musulmana e i Bhutto del Partito popolare), non è detto favorisca le vecchie famiglie le cui pressioni sulla giustizia sono state fortissime, tanto da fruttare a Imran oltre 70 fascicoli giudiziari.

DIFFICILE che molti pachistani, al di là delle intemperanze del Pti, abbiano digerito la manovra. Tre mesi però non sono molti per riorganizzare una protesta col rischio che una nuova bufera giudiziaria si abbatta anche sul Partito della giustizia di Khan, squalificandolo dalla corsa elettorale.

Il cammino elettorale intanto avrà anche a che vedere con – riassume la Bbc – due «leggi draconiane» favorevoli alla casta militare, vero ago della bilancia.

Sono emendamenti all’Official Secrets Act e autorizzano i servizi (Inter-Services Intelligence-ISI e Intelligence Bureau-IB) ad arrestare i cittadini per «sospetta violazione di segreti ufficiali». Infine, una pena detentiva di tre anni per chiunque riveli l’identità di un funzionario dell’intelligence. Emendamenti firmati da Alvi.