Quel giorno il tempo era incerto, e le previsioni davano un peggioramento durante la giornata e la serata. Il comizio in Piazza della Frutta, a Padova, era previsto di sera. Passammo tutta la giornata a montare il palco e a rifinirlo. Avevo avuto notizia, nel frattempo, che Enrico Berlinguer era arrivato a fine mattinata, in macchina da Genova, dove aveva parlato la sera prima, e che si trovava nella sua camera d’albergo, all’Hotel Plaza di Corso Milano, a preparare e rifinire il suo discorso della sera.
C’era stato per noi, che avevamo montato il palco, appena il tempo di una doccia e di cambiarsi d’abito: e intanto, via via che cominciavano ad arrivare compagne e compagni da zone più lontane del Veneto e della provincia, cominciava a cadere una pioggia sottile.

La piazza ormai piena, si era fatto buio, la musica dagli altoparlanti: arriva finalmente il segretario, acclamato dalla folla. Un rapido saluto anche con me sul palco, due anni dopo il Congresso della Fgci di Milano, quando avevo lasciato l’organizzazione giovanile per fare esperienza al Partito. Parlano i dirigenti locali, e tra di loro Lalla Trupia, responsabile nazionale delle donne e candidata alle europee. Prende la parola Berlinguer.

La piazza alterna silenzi incantati ed esplosioni di consenso. Quella voce ferma, chiara, determinata scandisce ogni parola e scolpisce l’animo dei militanti. Parla delle grandi sfide generali, della pace e dei diritti dei lavoratori. Parla di Padova, consapevole dei problemi che sono stati messi alla sua conoscenza. Noi, sul palco dietro il segretario, non sentiamo le incertezze e il rallentamento delle sue parole nella parte finale dell’intervento.

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La piazza invece, vedendo l’immagine ormai sofferente di Berlinguer sullo schermo, è più consapevole di noi – quasi una metafora della separazione tra base e vertice – che qualcosa sta succedendo, e comincia a incoraggiare il segretario a viva voce. «Enrico! Enrico! Enrico!» – gridano in tanti. Gli ultimi minuti del comizio li ricordo con angoscia: cresceva la consapevolezza di qualcosa di inimmaginabile, più grande di noi, destinato a incidere sul futuro di tutti. Ci agitiamo, dietro Berlinguer che dice le sue ultime parole: «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada».

La confusione è indescrivibile. Qualcuno fa avvicinare Giuliano Lenci, medico iscritto al Partito. Al termine del suo intervento, con la piazza angosciata che applaudiva e chiamava, a spalle Berlinguer viene portato giù dal palco. Corriamo a piedi all’hotel, vicino alla Piazza, dove il segretario viene accompagnato in macchina. Sono nel corridoio, e lui è dentro la camera aperta, dove viene fatta la prova di Babinski. È un ictus. C’è la polizia. Hanno già parlato col reparto di neurochirurgia. Io vado avanti prima dell’arrivo dell’ambulanza, per accertarmi con altri compagni che tutto fosse pronto per l’arrivo del segretario. L’ultima immagine di Berlinguer è il suo arrivo a neurochirurgia. In barella, ormai in coma, un rantolo esce dalla sua bocca, un piccolo rivolo di sangue. Viene portato in sala operatoria. Non lo vedrò più.

Due ore più tardi, dopo aver deciso l’organizzazione delle prossime ore (io sarei rimasto al Plaza, dove la famiglia di Berlinguer e i dirigenti del Partito sarebbero arrivati), ci viene in mente che c’è la ripresa delle immagini del comizio. Cerco dal telefono dell’ospedale il responsabile dell’Arci, e poco dopo veniamo messi a conoscenza che l’operatore a cui ci si era affidati aveva già venduto la cassetta sul mercato. Chiamammo la direzione del Partito che, attraverso i suoi canali, riesce a far ricomprare il filmato dalla Rai e a embargarlo. Le immagini verranno viste solo dopo l’11 giugno.

Nei tre giorni successivi organizzammo, dal Plaza, la vigilanza alla famiglia di Berlinguer e ai dirigenti accorsi, a partire da Giancarlo Pajetta. Si trattava di accompagnarli all’ospedale, in attesa di notizie. Ma i bollettini erano negativi, e noi tutti sapevamo che oramai era solo una questione di giorni, o di ore. La sera, quando gli ospiti riposavano in albergo, andavamo alle Feste dell’Unità in provincia, rendendoci conto dell’enorme impatto che questo accadimento aveva non solo nel Partito, ma nella società.

Poi giunse la fine, l’11 giugno. Sapevamo che sarebbe arrivata. Tutti si spostarono all’ospedale Civile. Anch’io vi misi piede, per la prima volta in quei giorni. Ricordo, al fondo di un lungo corridoio prima della terapia intensiva dove Berlinguer si trovava dopo l’operazione, il fotogramma dell’abbraccio tra l’altissimo Ugo Pecchioli e Pietro Ingrao, più basso, scoppiati a piangere, l’uno nelle braccia dell’altro. E poi il corteo per l’aeroporto di Tessera che accompagnava il feretro, tra due ininterrotte ali di folla, e i funerali a Piazza San Giovanni.

In pochi minuti, il 7 giugno, si era consumata non solo la vita di un leader ancora giovane, ma il suo tentativo più coraggioso di ripensare la sinistra come forza critica del capitalismo, oltre le esperienze comuniste e socialdemocratiche del Novecento. Quell’ultimo Berlinguer, che quarant’anni dopo è quello più fecondo per pensare a una sinistra del tempo nuovo.