Il fumettista valenciano Paco Roca ha vinto a Lucca Comics&Games il premio Yellow Kid come autore dell’anno per il suo ultimo libro, edito da Tunué, Ritorno all’Eden. La storia copre una fetta importante della storia di Spagna attraverso la vicenda personale della madre dell’autore, Antonia e di una speciale fotografia, frammento dal quale si dipana l’intera narrazione. L’autore è da sempre impegnato nel racconto della memoria collettiva e individuale e deve la sua fama al fumetto Rughe (Arrugas in spagnolo), che racconta la storia di Emilio, un anziano che deve fare i conti con l’età e con la sindrome di Alzheimer. Pubblicato per la prima volta nel 2006 in Francia, Rughe torna in libreria in Italia in un’edizione speciale con i contributi degli scrittori Fabio Geda, Michela Marzano e del giornalista Luca Raffaelli. Dei due libri, e del prossimo, abbiamo parlato con lui dopo la consegna del premio lucchese.

Il tuo fumetto «Rughe», più che invecchiato è cresciuto negli anni; dopo quindici edizioni in Spagna con quasi 80.000 copie vendute, un film di animazione con un Premio Goya come miglior adattamento nel 2011. In questi anni credi che sia cambiata invece la percezione dell’Alzheimer?
Sì, credo di sì. A livello scientifico conosciamo meglio la malattia, però è anche vero che come spesso accade, non ci rendiamo bene conto di cosa si tratti, né di quanto sia comune fino a che non ci tocca da vicino. In generale siamo progressivamente più coscienti degli sforzi delle persone malate e dei loro cari, dei progressi della medicina e dei trattamenti, della prevenzione. La malattia non si cura, ma sono stati fatti passi importanti rispetto alla prima fase, adesso si può ritardare la degenerazione. Anche la sua rappresentazione, nel cinema, in letteratura è sempre più frequente e accurata e questo è molto importante.

Nel libro il protagonista Emilio che non accetta la malattia, entra nella residenza perché il figlio non può accudirlo. Il personaggio di Miguel, altro ospite della residenza, è quello che mantiene lucidità; è come un Virgilio che accompagna Emilio nell’inferno della residenza, dove al primo piano vengono ospitati o spostati gli ospiti non più autosufficienti. La sua visione è più realistica, ci offre uno sguardo obiettivo sulla situazione, simile al nostro di lettori. Come hai costruito questo personaggio?
È come dici: avevo bisogno di un personaggio all’interno della residenza che potesse mostrare ciò che il lettore doveva sapere: da un lato un personaggio che senza volerlo prende piano piano più importanza, tanto che io credo che alla fine sia lui il vero protagonista della storia, che alla fine parla di più di chi offre cura, che della persona malata. Il racconto offre una visione sulla crescita che ognuno di noi sperimenta quando si trova a prendersi cura di qualcuno. È una direzione che la storia ha preso mentre la scrivevo, non era previsto. Parliamo della solitudine, ma anche di come prendersi cura di qualcuno ci fa cambiare; Miguel si scorda del suo lato egoista quando inizia a sostenere Emilio. Qualcuno mi ha detto che sembrano Don Chisciotte e Sancho, non solo per le fisicità, ma perché effettivamente c’è una scena nel Don Chisciotte dove Cervantes assegna a Sancho il ruolo di cura e lo mostra mentre aiuta Chisciotte a vestirsi.

Il linguaggio del fumetto invita il lettore a focalizzare dal punto de vista del personaggio, leggendo «Rughe», ogni tanto finiamo in mezzo ai ricordi dei personaggi, nella loro visualizzazione delle proprie memorie.
Sì, è una delle cose che ho provato a far accadere in questo libro; far vedere da dentro la vecchiaia e la malattia, dalla propria prospettiva dei personaggi. Non siamo capaci di assimilarlo e la visione alla fine è fittizia, più simbolica che reale. Credo infatti che la visualizzazione della realtà da parte dei malati possa essere più simile a un film del terrore: il loro mondo è una realtà in continuo cambiamento dove improvvisamente nella propria casa può apparire una stanza in più, un mondo in cui ci si sente del tutto smarriti: per questo motivo la terapia spesso prevede medicinali antidepressivi. Anche se non l’ho sviluppata a fondo, quella di vedere la malattia dalla stessa prospettiva dei malati mi sembrava un’opportunità molto interessante. Penso che con il fumetto si possano fare moltissime cose, avvicinarsi alla sfera simbolica, mostrare con flashback rapidissimi il passato e tornare con immediatezza al presente, giocare con i diversi piani di realtà. Nel cinema o in letteratura esistono ovviamente altre modalità e dispositivi, ma nel fumetto ci sono già gli elementi necessari per poter incastrare i molteplici universi che possono convivere in una storia.

Un linguaggio fatto di frammentazione…
Certo, che riguarda anche la messa in pagina e il formato: vignette che spariscono, intere pagine da dove queste vengono cancellate, come succede alla memoria, e come nella doppia finale di Rughe. Non giochiamo solo all’interno della vignetta, ma sulla sintassi della narrazione, perché il fumetto per sua costituzione si presta a questo tipo di gioco.

Parliamo di «Ritorno all’Eden». Lì introduci un riferimento centrale a un altro linguaggio, quello fotografico; lo fai non solo a livello filologico, per gli inserti fotografici autentici che appaiono nelle pagine, ma invitando il lettore dalla stessa copertina a entrare nella storia della fotografia. Qual è stato e quale sta diventando il ruolo della tecnologia nel nostro esercizio del ricordo?
Per le generazioni che ci hanno preceduto una fotografia era intanto un oggetto fisico, del quale non esisteva nessuna copia, spesso neanche un negativo, come quella fotografia di Antonia dalla quale nasce la storia che racconto, sviluppata direttamente nella camera oscura interna alla macchina, sulla spiaggia, dopo essere stata scattata. Un’unica copia con un valore materiale inestimabile. Mia madre ha conservato la foto proprio come se si trattasse di un tesoro, per tutta la vita. Adesso le foto non hanno più questa tattilità, sono liquide, immateriali, possono conservarsi in mille piattaforme. La fotografia in sé è qualcosa di oggettivo, che congela una realtà: ha importanza solo se considerata soggettivamente. La foto dalla quale scaturisce tutta la storia ha importanza per mia madre, ma al tempo stesso per tutti gli altri è semplicemente la foto di una famiglia a pranzo in spiaggia, sorridente. Con questa storia volevo contagiare il lettore con l’emotività e la soggettività di mia madre, per la quale questa foto è importantissima, dare soggettività e vita a una foto che di per sé non ce l’ha. E quindi entrare e uscire dalla foto diventa iniziare a conoscere mia madre.

Le primissime pagine del libro-che ha formato orizzontale- contengono una specie di introduzione grafica dove su fondo nero, collochi delle strisce di vignette, montati come fotogrammi- da più piccole e compresse, a più grandi e «lente». Sembra che tu suggerisca la fugacità e relatività del tempo individuale su quello collettivo.
Sono vite, ma anche fumetti. Volevo svelare che tutto è fittizio: per me una delle grandi novità di questo libro rispetto ai precedenti è che ho voluto accettare e raccontare che i fumetti non sono la realtà, ma una rappresentazione della realtà. Una volta stabilito questo assunto si ha più timore di utilizzare certe tecniche o dispositivi. Quindi le vite qui rappresentate, non appaiono come le avrei disegnate in un altro momento, come con una telecamera che sta filmando, ma dentro a fumetto; volevo avvicinare e far entrare il lettore dentro a una vignetta, fargli capire che si tratta di un artificio. Volevo giocare con il linguaggio. Credo che Ritorno all’Eden sia il mio primo fumetto in senso stretto.

E tutti quelli precedenti?
Sono più simili a uno storyboard, questa è la prima volta che sono più cosciente del fatto che sto disegnando un fumetto, conoscendo a pieno le possibilità del formato, delle vignette; la prima volta che svelo al lettore i meccanismi e la metafisica del linguaggio. Per me è importantissimo essere stato capace di riflettere sul mezzo attraverso il racconto e di lasciare da parte l’inganno di realtà rivolto al lettore.

In Spagna esiste un costante e controverso dibattito sul tema della memoria collettiva. Non credi che spesso si prendano derive pericolose, quasi nostalgiche? Quanto è minaccioso il revisionismo?
Ci sono rischi nel racconto della storia: come nella scienza ci sono i negazionisti, in storia esistono i revisionismi, ma ci sono ovviamente cose sulle quali è impossibile dibattere perché esiste una verità scientifica della storia, che non può essere alterata se non sulle sfumature, o attraverso letture e teorie strutturalmente argomentate. Non c’è dibattito in questo tempo, ma ci sono versioni contrastanti sul racconto del passato, perché è politicizzato per ragioni storiche molto complesse. In Spagna c’è una parte politica che vuole la rimozione della memoria, non perché ci possa far bene o perché il passato svegli i fantasmi, ma semplicemente perché non si sente a suo agio con il passato per come lo ha creato, visto che ora è stato smontato e mostrato per quel che è, grazie al lavoro serio degli storici che lo hanno raccontato per com’è stato. Quindi si tratta di un non-ricordare che non guarda al futuro ma al mantenimento di una certa idea del passato, che traduce la scomodità di fondo per la verità storica emersa.

Un esempio concreto di questa complessità è l’esistenza di luoghi come il mausoleo della Valle dei caduti, monumento costruito per i prigionieri repubblicani che conserva i resti dei caduti nazionalisti e la salma di Primo de Rivera.
Sì, fino a un paio di anni fa ospitava anche quella di Francisco Franco, ma è stato un problema toglierlo di lì, difficile perché questo mantra della destra di non disturbare il passato; il leader del secondo partito di Spagna viene dalla cultura franchista, così come molti firmatari della nostra costituzione. Tutto questo fa sì che un settore non si sente comodo, e vorrebbe dimenticare tutto e guardare al futuro. Ma per quarant’anni ci si è un po’ dimenticati degli aspetti orribili della nostra storia, delle vittime. Succede anche in Francia, in Italia, in Russia, ogni paese instaura un dialogo interminabile, una continua riflessione e ripensamento del proprio passato; come quando si tolgono le statue per pulirle, come quella di Napoleone in Francia e nel momento di riposizionarle, ci si chiede se siano adeguate. Come si gestisce il passato da un presente in continuo cambiamento? Come posizionarsi per esempio di fronte alle statue, o alle moltissime strade e piazze intitolati a franchisti? C’è chi sostiene che andrebbero mantenute ma contestualizzate, cosa che implica il consenso politico del momento. Un dibattito che si complica, anche a causa delle regole della post verità. Adesso la mia verità vale come quella di chiunque altro, anche di colui che pensa che la terra è piatta etc. Sì il revisionismo è molto presente, si è perso il senso della verità oggettiva sia nella scienza che nella storia.

Le tue storie contengono elementi autobiografici importanti…
Non è scontato, ma sì, certi accadimenti della mia vita e alcune delle persone più importanti, come i miei genitori, appaiono nei miei libri.

Anche nel libro al quale stai lavorando adesso?
No, il prossimo non è una storia personale. Torno al tema della memoria, non vorrei che fosse così ma tratterò un argomento divisivo in Spagna che è quello dell’esumazione delle fosse comuni. È la storia vera di una persona che ha scavato e dato sepoltura a quasi 1500 giustiziati; negli anni della repressione del dopoguerra tra il 1939 e il 1945 moltissime persone furono fucilate. Visto che Franco non aveva già più alleati, fu un vero e proprio genocidio ideologico.