Paco Ignacio Taibo II: «Noi, i ragazzi della novela negra»
L'intervista Parla lo scrittore che con Sepúlveda condivideva la passione politica e l’uso «sociale» della letteratura di genere. «Ora - spiega - attenzione ai cambiamenti portati dal virus»
L'intervista Parla lo scrittore che con Sepúlveda condivideva la passione politica e l’uso «sociale» della letteratura di genere. «Ora - spiega - attenzione ai cambiamenti portati dal virus»
Sul sito del «Fondo di cultura economica» di Città del Messico c’è da due giorni una foto. José Manuel Fajardo, Manuel Vázquez Montalbán, Juan Madrid, Luis Sepúlveda, Bruno Arpaia, Paco Ignacio Taibo II. Una buona rappresentanza della Banda, il gruppo di pazzi scrittori di sinistra che la novela negra ha costruito e trascinato su e giù per l’Europa e l’America latina, apparentemente occupandosi di commissari e di killer, in realtà di scrutare criticamente il ventre della società. La Semana Negra li riunisce a Gijón una volta l’anno in un’orgia di letteratura e di salsicce, di sidro – molto sidro – e di politica – molta, molta politica. Al timone c’erano due amici, due fratelli: l’inventore Paco Ignacio Taibo II, che a Gijón è nato, e il coetaneo Luis Sepulveda, che a Gijón aveva messo le radici di una vita che sembrava nata senza. Luis ci ha detto addio l’altro giorno. Paco è qui.
I vecchi scrittori rossi non muoiono mai, hai detto. Ieri abbiamo salutato Luis Sepúlveda, oggi che ne pensi?
La morte di Luis mi ha obbligato a ricordare gli anni dell’entrata in Europa della nostra generazione di narratori. Stavamo vivendo un momento nel quale, dopo che si era concluso il boom di Cortázar, Vargas Llosa e García Márquez, le porte per uscire dai nostri paesi in America latina si erano chiuse. E improvvisamente si aprì un buco. Io dicevo che siamo entrati dall’ingresso posteriore, dal romanzo poliziesco. Grazie al poliziesco ci si è aperta una porta e da questa siamo entrati. Un bel gruppo di autori. C’era Luis, c’ero io, c’erano Daniel Chavarría, Rolo Díez, Santiago Gamboa…
E in Europa vi aspettava Manuel Vázquez Montalbán.
Con questo gruppo di autori ci siamo legati alla curiosità che ispirava in quel momento il poliziesco: Andrew Martin, Juan Madrid, Manolo Montalbán… Si aprì questa porta e si creò un contatto permanente, eravamo un clan di zingari che percorreva l’Italia, la Francia, la Germania in riunioni, dibattiti, discussioni, presentazione di libri, presentazioni incrociate. E c’era qualcosa di molto importante: non abbiamo dovuto chiedere scusa per essere di sinistra e per scrivere letteratura d’azione. Invece eravamo quel che eravamo, dicevamo quel che dicevamo, chi voleva ci leggeva e chi non leggeva non ci sopportava. Un gruppo di compagni che si vedeva con grande frequenza, chiacchierava molto, discuteva molto, ripercorreva le storie personali di ciascuno. Facemmo un programma per Arte che si chiamava «De la bandera roja a la novela negra». Così producevamo la letteratura cosiddetta di genere, la quale non era per niente di genere, ossia, era del genere chiamato letteratura. Luis e io ci vedevamo spesso, ha vissuto per un certo tempo a casa mia in Messico, ma ci stavamo ancora conoscendo finché un giorno mi chiama e mi dice «posso usare il tuo Belascoaran in uno dei miei romanzi»? E io gli ho detto claro che te lo presto, ma me lo restituisci nello stato in cui te l’ho dato, non me lo danneggiare (Héctor Belascoarán è il detective dei polizieschi di Taibo ed è brutto, zoppo e orbo, nda). Lo usò per Un nome da torero e fu alla base di una vera fratellanza.
«Un nome da torero» è dedicato anche a te…
Esatto. E il successo di Luis fu quello che irruppe tra noi, in termini di grande vendita di libri, prima con Il vecchio che leggeva romanzi d’amore e poi con altri romanzi fino alla Gabbianella…
Anche se «Il vecchio» ci ha messo qualche anno per raggiungere i milioni di copie, come te lo sei spiegato?
Perché non era un fenomeno tipico, anzi, eravamo tutti molto atipici. Io mi ero creato uno grande spazio tra i lettori di romanzi polizieschi, ma l’allargamento si è prodotto con la biografia del Che, Senza perdere la tenerezza. È stato curioso attirare la platea dei lettori di polizieschi alle vibrazioni del Che, e poi al contrario restituirli al poliziesco.
C’è una traiettoria comune?
Certo: la visione critica della società. Ci accomunava tutti. Poi ognuno faceva anche le sue cose, negli ultimi anni ci eravamo visti meno e da quando ho lasciato la direzione della Semana Negra ancora meno, vale a dire da quattro anni, quando mi sono unito al progetto politico di «Morena», il movimento del presidente del Messico López Obrador.
Ci sono stati anni ricchi di scrittori rossi, nel modo e nella parabola che mi hai raccontato. Dove sono andati a finire, c’è stata un’ondata successiva?
Credo di sì, ma non hanno finito di crescere, né all’interno dei loro paesi né dall’America verso l’Europa e viceversa. Ogni anno leggo tre o quattro romanzi molto buoni, romanzi d’azione con un forte livello letterario e allo stesso tempo con una visione molto precisa della società. Però non esiste in questo momento un gruppo come lo siamo stati noi, molto articolato, molto solidale al suo interno.
Non c’è o non si vede?
Non si vede. Ma gli scrittori hanno una virtù rispetto agli altri esseri umani, ed è che il libro resta. E mentre continui a leggere, sei vivo.
Le destre continuano a vincere ma in modo sempre diverso dagli anni ’70 in cui siete nati voi. È solo una violenza differente o qualcosa è cambiato?
C’è da riportare quello scenario al giorno d’oggi, e fatto questo si nota che siamo davanti a un prequel di profondità ancora sconosciuta. Nella crisi del coronavirus il neoliberalismo sta mostrando il suo volto autentico di cane rabbioso, e all’uscita di questa crisi ci sarà una resa dei conti. Ne sono assolutamente convinto. Bisogna fare domande, bisogna farle ora, bisogna tenerle aperte fino a dopo la crisi. Come osano inaugurare un ospedale in cui il tetto non era stato costruito? Chi dell’apparato dello stato si è rubato i finanziamenti per gli apparecchi di radiologia? Ci sono precise responsabilità degli apparati statali nel taglio della spesa per la sanità pubblica. Queste domande sono nell’aria, bisogna farle oggi, ricordarle e mantenerle vive per la fine della crisi.
Quindi usciremo dalla crisi con la coscienza che qualcosa deve cambiare, è così?
Io dico di sì, e questo andrà a rimbalzare anche sulla letteratura. Non necessariamente con libri sulla crisi, perché i rimbalzi letterari sono strani. Due anni di mobilitazione studentesca fanni sì che milioni di lettori si guardino indietro e leggano romanzi come Spartaco di Howard Fast (comunista e incarcerato durante il maccartismo, nda). Gli elementi con cui le crisi si riflettono sulla letteratura non sono aritmetici.
Ora cosa stai scrivendo?
Ho appena finito un libro che racconta la storia degli adolescenti ebrei socialisti contro i nazisti nel ghetto di Varsavia. Una storia del 1943 che dice: ciò che conta è resistere.
Di Sepúlveda hanno detto: scrittura semplice, scrittura popolare, persino brutta scrittura. Che pensi della qualità dei suoi romanzi?
Luis non è mai stato uno stilista, ma un catturatore di buone storie. Questa era la sua virtù.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento