«Mi sono interrogato molto sul rischio di raccontare qualcosa di così personale, ma leggere quel romanzo mi ha dato coraggio e allora ho pensato di farmi accompagnare dallo stesso Pasolini». Così Klaus Martini, attore e drammaturgo classe 1995, racconta il suo testo P.P.P. ti presento l’Albania. Monologo vincitore del Mittelyoung lo scorso anno – la sezione under 30 del Mittelfest di Cividale del Friuli – una versione radiofonica verrà trasmessa domenica 15 maggio, alle 22.30, su Radio3 all’interno della rassegna di drammaturgia Futuropresente, curata da Laura Palmieri e Antonio Arduino. Nel testo, interpretato dallo stesso Martini, la storia d’emigrazione dei genitori si intreccia con quella dei protagonisti de Il sogno di una cosa, primo romanzo di Pasolini scritto nel ’49-’50, dove il viaggio avviene al contrario: dall’Italia del dopoguerra verso la Jugoslavia comunista.

Com’è avvenuto il tuo incontro con «Il sogno di una cosa»?

L’ho letto la prima volta nel 2019 quando Massimo Somaglino ha curato la regia di un adattamento teatrale, io interpretavo Nini, uno dei ragazzi del romanzo. Allora ho iniziato a sviluppare una serie di paralleli tra ciò che scriveva Pasolini e la mia esperienza personale, o meglio quella dei miei genitori: l’arrivo in Italia, la vita da emigrati, il loro rapporto con le radici. Nel romanzo è molto viva la parte giovanile di Pasolini e il suo rapporto con Casarsa, con il Friuli, con la madre. È un testo crudo e parla della vita di questi giovani, per lo più braccianti, che non hanno nulla ma che sognano di cambiare la propria vita, di avere una dignità.

Il sogno di una vita migliore, così presente nel romanzo, riguarda da vicino anche i tuoi genitori. È destinato ad essere tradito?

Non so se è un destino, sicuramente in quella generazione è accaduto a molti. Nel testo di Pasolini i ragazzi che emigrano in Jugoslavia e in Svizzera non sempre trovano quello che speravano, quello che di magico c’è nel sogno. L’Italia era l’equivalente del sogno americano per i giovani albanesi, per i miei genitori all’inizio non è stato facile, c’è voluto un lungo percorso prima di arrivare ad una condizione di dignità. Tra la povertà lasciata in Albania e quella trovata in Italia c’era comunque l’impulso ad abbandonare un regime molto cupo come quello di Enver Hozha.

La politica in effetti rimane sullo sfondo, ma condiziona fortemente le vite dei personaggi, sia del tuo testo che di quello di Pasolini.

Sì, è curioso il contrasto perché i giovani del romanzo sognano la Jugoslavia di Tito, il loro ideale è quello comunista, mentre i miei genitori scappano da un Paese che a sua volta si riteneva comunista. C’è però da dire quel regime era deragliato da tutti gli ideali e i principi di classe diventando una vera e propria dittatura. Quindi vedo una similitudine tra le due situazioni politiche, anche l’Italia del dopoguerra era reduce da una dittatura che portava la povertà, l’irrigidimento, l’esaurirsi della vitalità. In entrambi i casi c’era la volontà di allontanarsene per sognare qualcosa di diverso.

L’elemento dell’identità è molto presente nel lavoro, fare teatro è un modo per esplorare questa complessità?

Sicuramente è un ottimo strumento perché non ha l’obiettivo di dare una risposta analitica. Il teatro dà la possibilità di vivere in un dato momento con quello che c’è, e questo è uno dei più grandi insegnamenti che ad oggi mi ha dato. Sto imparando ad accettare di stare a metà tra la mia identità albanese e quella italiana, un po’ come un funambolo. Sospeso, senza prendere per forza posizione. È molto più facile etichettare, mentre bisognerebbe accettare la complessità e la diversità nella nostra umanità.