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Ospedali al collasso in Sudan, ma c’è chi resta aperto per guerra

Ospedali al collasso in Sudan, ma c’è chi resta aperto per guerraParamilitari delle Rapid Support Forces nel distretto di Mayo – Ap

Intervista La dottoressa Gina Ortella, coordinatrice delle attività di Emergency nel paese. «La struttura di Nyala, nel Sud Darfur, tra carestie, epidemie e conflitti continua a funzionare grazie a medici e infermieri locali. È una grande prova»

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 20 ottobre 2023

«Attualmente chiuso per guerra»: l’avvertenza sul sito di Emergency riguarda il programma regionale di cardiochirurgia che l’associazione portava avanti in Sudan presso il suo Centro Salam a Khartoum. Creato nel 2007 per affrontare le cardiopatie che si apprestano a diventare la prima causa di mortalità in Africa, l’ospedale, innovativo anche dal punto di vista ambientale, ha operato negli anni oltre 10 mila persone da 28 paesi.

Il conflitto in corso da sei mesi non permette il trasferimento di pazienti da altri Stati verso la capitale sudanese. Ma le altre attività non si fermano, anzi. Più in generale i combattimenti tra l’esercito e i paramilitari delle Rapid Support Forces impedisce ai sudanesi l’accesso al cibo, all’acqua, alle cure. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Gina Portella, coordinatore medico di Emergency a Khartoum.

Gli sfollati interni sono ormai 7,1 milioni, 4,5 milioni dei quali dall’inizio del conflitto: un primato mondiale. A chi appellarsi perché finisca?

Mi verrebbe da dire: al buon senso. È una dolorosa follia. Una prospettiva non riesco a vederla, da qui. Per ora non cè nulla che faccia sperare in un’apertura.

Avete aperto un altro ospedale, mentre l’Onu avverte che non funziona il 70% delle strutture nelle zone degli scontri.

Sì, dal 6 agosto è operativo il Centro di chirurgia d’urgenza e traumatologia qui a Khartoum. Gli ospedali esistenti facevano e fanno sempre più fatica, per mancanza di risorse umane e di mezzi. Abbiamo dunque ristrutturato una parte separata del compound del Centro Salam.

Chi arriva?

Tantissimi feriti. E le storie delle vittime collaterali sono le stesse di ogni zona di guerra. Fra i primi minori ricoverati ci sono state Mariam e Rayan, ferite da proiettili. E poi Juma, che ha perso un occhio e una mano. Arrivano anche bambini venuti a contatto con mine e altri ordigni. Come in Afghanistan.

L’Onu avverte che 58 centri medici sono stati attaccati, con morti e feriti, i lavoratori non sono più pagati, gli approvvigionamenti interrotti. La neutralità di Emergency, oltre alla sua importanza negli «epicentri del bisogno» (per citare Simone Weil) vi protegge anche in Sudan?

Sì. Il Salam Centre è conosciuto da tutti, popolazione e autorità. E così l’ospedale di Nyala.

Il centro cardiologico funziona tuttora per chi è in Sudan?

Continuiamo a garantire gratuitamente farmaci e visite di controllo per i pazienti già operati o in lista di attesa. E abbiamo creato sul territorio due cliniche cardiologiche (oltre a quelle già funzionanti nei nostri due centri pediatrici) per far sì che i pazienti che si sono spostati possano ricevere assistenza. Abbiamo in programma di aprire altri tre centri in punti strategici, d’accordo con il ministero della Sanità.

Si teme che 10 mila bambini potrebbero morire entro il 2023 per malnutrizione e malattie infettive in mancanza di cure salvavita. Da lì l’importanza dei vostri centri pediatrici.

L’ospedale di Nyala, la capitale del Sud Darfur dove si sommano carestie, epidemie e conflitti, continua a funzionare grazie a medici e infermieri locali. È una grande prova: gli spari di sottofondo accompagnano sempre le nostre telefonate. Del centro pediatrico a Port Sudan volevamo fare solo un ambulatorio, ma lo stiamo ripristinando come ospedale, visto il gran numero di sfollati. Purtroppo il centro di Mayo, in un campo profughi a circa 20 km da Khartoum, è chiuso: si trova al centro degli scontri.

Avete difficoltà per gli approvvigionamenti?

Lavorando in paesi fortemente instabili e con difficoltà di movimento, siamo abituati a mantenere stock di farmaci e materiale indispensabile. Ma siamo in difficoltà come tutti. Lo sforzo è decuplicato rispetto al normale.

Il personale di Emergency adesso è soprattutto locale?

Di internazionali siamo rimasti una quindicina (in maggior parte medici e infermieri); prima della guerra eravamo circa 50. Ma in questi anni abbiamo seminato molto, in termini di formazione. Ora vediamo i risultati. I colleghi sudanesi sono bravissimi. Non è facile per loro, anche per le tante difficoltà logistiche.

Avete canali aperti con entrambe le parti in guerra, diversamente dall’inizio della crisi?

Adesso parliamo in modo trasparente con tutti. Dobbiamo.

La sala d’attesa del Salam Centre di Emergency a Khartoum

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