La Gran Bretagna ha una storia recente assai più presentabile di quella del resto d’Europa: niente fascismo (o quasi), niente lager, niente gulag, nessun rischio rivoluzionario. Anzi: due guerre mondiali vinte, e la seconda inequivocabilmente dalla parte della ragione, quella del «mondo libero». Naturalmente c’è il dettaglio dell’impero, una cosina da nulla grazie alla quale furono evitate le barbarie totalitarie innescate dalla diseguaglianza su cui si fonda l’occidente capitalistico. Fatto sta che il «depredare fuori per sedare dentro» è stata una strategia – deliberata o no – che sulle isole britanniche ha funzionato per gran parte della modernità, e che ha, en passant, prevenuto l’avvento di una vera e propria rivoluzione borghese.

MA GLI SCHELETRI CI SONO anche nelle monarchie costituzionali, solo che sono nascosti meglio, dentro armadi chiusi a doppia mandata. E quando non si riesce proprio più a tenerceli dentro, si cerca di descriverli e raccontarli diversamente con un apposito revisionismo storico.

Con l’inchiesta governativa apertasi lo scorso lunedì 27 febbraio a Londra sugli abusi inflitti ai bambini spediti nelle colonie dal 1947 agli anni Settanta, denominata Independent inquiry into child sexual abuse (Iicsa), quest’operazione si annuncia difficile. Non solo per le vittime, oggi persone anziane che devono rievocare l’indicibile dramma della propria infanzia perduta e delle loro famiglie distrutte dietro ai deliri d’ingegneria sociale di allora, ma per lo stato tout court.

Vi convergono due filoni vergognosi, che s’intrecciano in modo perverso e inquietante, al punto da mettere in crisi il processo di riverniciatura delle porcherie dell’impero britannico che certa storiografia Tory e filo-imperiale – che trova in Niall Ferguson (e nell’ex ministro Michael Gove) due tra i suoi apologeti più entusiasti – persegue infaticabile grazie al dominio conservatore di questi anni: imperialismo «democratico» e violenza sui minori.

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Bambini diretti in Australia davanti alla nave SS Asturias nel 1947

IL «CHILD MIGRANTS Programme», programma di popolamento delle colonie iniziato nell’immediato secondo dopoguerra quando il paese, unico vincitore in mezzo alle macerie del continente, si trovava tuttavia in condizioni economiche di totale prostrazione, fu in realtà una deportazione che non avrebbe sfigurato nel repertorio di efferatezze del totalitarismo fascista appena sconfitto nel 1945. In una manovra d’ingegneria sociale apertamente razzista, che ambiva a popolare di bianchi le terre dell’impero per meglio tenere sotto controllo i sudditi extraeuropei, e allo stesso tempo ad alleggerire le tensioni sociali nella madrepatria, migliaia di bambini dai tre ai quattordici anni d’età furono dislocati ai quattro angoli dell’impero: una win-win situation che trovava tutti d’accordo, così almeno devono averla vista i suoi ideatori.

Ma la ragione per cui il governo laburista – istallatosi a sorpresa nel 1945, dopo aver sconfitto i Tories del leonino Churchill – abbia perpetrato una simile barbarie è abbastanza semplice: si trattava di una pratica diffusa da centinaia d’anni da parte della Gran Bretagna, presumibilmente l’unico paese al mondo ad aver fatto una cosa simile su simile scala.

IN 350 ANNI DI STORIA imperiale, circa 150000 bambini furono sparsi in giro per i domini, dalla Virginia all’Australia, dalla nuova Zelanda al Canada, fino allo Zimbabwe (ex-Rhodesia). Le origini del programma sono dunque da rintracciarsi nel 1618, quando partì il primo contingente di cento bimbi da Londra alla Virginia: l’ultimo arrivò in Australia nel 1970.

Nel novecento le mete furono soprattutto Canada, Nuova Zelanda e Australia, dove, nell’ultima ondata, ne furono inviati più di tremila tra il 1947 e il 1965. Si trattava di bambini provenienti da orfanatrofi o da zone particolarmente disagiate del paese. A volte erano figli di ragazze madri costrette a separarsene, per via dello stigma con cui era vista la condizione all’epoca.
Nei casi in cui i genitori c’erano, gli si chiedeva di consegnare i figli alla patria, in certi casi nemmeno quello. Agli orfani si rivelava che i genitori erano morti, e che sarebbero partiti verso una vita migliore.

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MA NELLE ISTITUZIONI di ricevimento, remote aziende agricole o presso famiglie adottive, dov’erano spediti a svolgere lavori manuali di durezza incredibile – spesso letteralmente dall’altra parte del mondo e in un’epoca in cui si emigrava per sempre -, in moltissimi subirono maltrattamenti, punizioni fisiche, violenze sessuali e schiavitù. Il tutto col volenteroso beneplacito di organizzazioni religiose e pii istituti cattolici e anglicani. Per esempio, la seguente perla scaturì dalle labbra di Sua Grazia l’arcivescovo di Perth nel 1938, e merita di essere citata nella sua interezza per l’affinità evidente con quelle proferite sempre più spesso nel dibattito pubblico contemporaneo: «Quando le culle vuote contribuiscono dolorosamente al vuoto degli spazi, è necessario cercare fonti di approvvigionamento esterno. Se non ci riforniamo dalla nostra stirpe, ci lasceremo sempre più esposti alla minaccia dello sciame di milioni dei nostri vicini di razza asiatica».

LE AUTORITÀ NAZIONALI erano altrettanto a conoscenza dei maltrattamenti. Tuttavia osservarono un altrettanto religioso silenzio sulla crudeltà che avveniva sotto la propria egida. Le denunce avevano cominciato a emergere già negli anni Ottanta, ma le vittime hanno dovuto attendere il 2010 perché il governo britannico facesse pubblica ammenda nella persona dell’allora primo ministro Gordon Brown, qualche mese dopo l’allora controparte australiana, Kevin Rudd.

Si diceva sopra dell’intreccio perverso di una pagina fosca dell’altrimenti luminosa storia patria con le denunce ormai dilaganti di abusi sessuali inflitti ai minori in istituzioni pubbliche e private compresa la Bbc, la Premier League di calcio e perfino il parlamento, tenute finora sotto silenzio da un’omertà sistematica. Costituisce un combinato disposto letale che si è finora confermato difficile da indagare.

È stato nel 2014, per far fronte al pericolo destabilizzante di simili rivelazioni che, quando era ancora ministra dell’interno, Theresa May aveva istituito l’Iicsa. Nella sua anodina formulazione, l’inchiesta ha come scopo accertare se istituzioni pubbliche e non abbiano «preso sul serio la loro responsabilità di proteggere i bambini da abusi sessuali e di fare significative raccomandazioni per un cambiamento nel futuro». Ma l’iter sta incontrando ogni sorta di difficoltà, non solo perché vi sono varie personalità politiche del passato che risultano a vario titolo coinvolte. Tanto che ha perso finora tre presidenti, tutti dimissionari.

LA NAZIONE CHE PER SECOLI ha imposto l’emigrazione ai propri connazionali in buona sostanza deportandoli è la stessa che oggi impedisce l’immigrazione agli stranieri: è un paradosso abbastanza illuminante. Eppure, anche in mezzo al fiume di dolore e sofferenza evocato in questa inchiesta dai superstiti metropolitani (inteso nel senso di metropole, centro del British Empire) dei misfatti dell’imperialismo, il non voler agire sulle cause reali della diseguaglianza sociale, motivo ultimo per cui si commettono simili efferatezze, rischia di essere ancora una volta ignorato.