Ci sono un paio di chiavi di lettura per guardare alla corsa presidenziale in Iran che si risolverà i 5 luglio con il ballottaggio tra il riformista Massoud Pezeshkian, ieri in vantaggio con oltre il 42%, e il fondamentalista Said Jalili. La prima è sulla tenuta del regime.

Che vede ancora un volta un calo della partecipazione con circa il 40% dei votanti: la legittimità della repubblica islamica fondata nel 1979 con la rivoluzione di Khomeini è in discussione non solo per le pesanti disillusioni sul sistema degli ayatollah e la crisi economica ma perché queste elezioni arrivano dopo mesi di proteste quasi ininterrotte da parte della popolazione per ottenere maggiore rispetto dei propri diritti, manifestazioni duramente represse dalle forze dell’ordine. A far nascere il movimento “Donne, vita, libertà” era stata nel 2022 la morte della giovane Mahsa Amini, avvenuta mentre si trovava nelle mani della polizia per non aver indossato il velo nella maniera considerata corretta secondo le regole dei guardiani della morale.

Al di là del risultato, numerosi attivisti, come ha spiegato di recente la premio Nobel per la pace Shirin Ebadi considerano il voto “una farsa” dopo la quale non ci sarà nessun cambiamento. Secondo la costituzione iraniana, infatti, il potere decisionale continua ad essere appannaggio esclusivo del leader supremo Ali Khamenei. Il ruolo del presidente è solo quello di interpretare al meglio il suo volere. E la successione a Khamenei appare ancora lontana dall’essere definita: uno dei candidati più accreditati era proprio il presidente Ebraihim Raisi deceduto un mese fa in un misterioso incidente di elicottero.

Proprio per questo il regime serra i ranghi. Trovare un successore dell’attuale Guida Suprema è una questione di vitale importanza per la sopravvivenza della repubblica islamica. Per farlo non si può appoggiare soltanto sugli onnipresenti e potenti Pasdaran, le Guardie della rivoluzione da anni impegnati sui fronti di guerra, dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen. Nati dal movimento di massa della rivoluzione del ’79 e dalla necessita di sostenere l’attacco del 1980 portato dall’Iraq di Saddam Hussein, sono diventati negli ultimi decenni i veri padroni del Paese e controllano oltre all’apparato militare anche le leve economiche. Ma non basta la loro potenza a tenere in piedi la repubblica islamica e soprattutto a garantirne la legittimità popolare.

Ecco perché il voto in Iran manovrato dall’alto è un test fondamentale. Ed ecco perché il regime ha “resuscitato” i riformisti e i moderati lasciati fuori dai giochi dopo l’uscita di scena prima di Khatami e poi di Rohani, due ex presidenti che avevano dato l’illusione di potere introdurre cambiamenti in un sistema sostanzialmente irriformabile. La corsa del candidato riformista Pezeshkian, dato favorito dai sondaggi degli stessi Pasdaran, appare quindi essenziale alla tenuta del regime chiamato a fornire una sorta di “credibilità” a queste elezioni presidenziali che rischiavano di diventare una specie di sondaggio riservato ai soli ultraconservatori. Se questa operazione avrà davvero successo lo scopriremo con il ballottaggio, per ora l’affluenza alle urne ne ha beneficiato in minima parte, anzi stando a rilevamenti informali è inferiore ai dati ufficiali. In poche parole “riscoprendo” i riformisti il regime torna indietro per potere andare avanti.

L’altra chiave di lettura, oltre alla tenuta del regime, è quella della politica estera. L’Iran – punto di riferimento dell’Islam sciita come l’Arabia saudita lo è di quello maggioritario sunnita – è un peso massimo del Medio Oriente, alleato della Russia, con la quale ha contribuito alla difesa del regime di siriano di Bashar Assad, ma anche della Cina, Paese verso il quale sono dirette la maggior parte delle su esportazioni di petrolio. Nonostante sia da decenni sotto sanzioni occidentali, in buona parte dovute al programma nucleare, la repubblica islamica non è isolata ed esibisce la leadership dell’”asse della resistenza” in cui a inglobato oltre agli Hezbollah libanesi, il movimento islamico Hamas (sunnita), le milizie scite irachene, più potenti delle stesse forze armate di Baghdad, e gli Houthi yemeniti che tengono sotto tiro il Mar Rosso.

Una sfera di influenza, dal Medio Oriente al Golfo, al Mediterraneo, dall’Afghanistan all’Asia centrale, che non si può ignorare. Soprattutto adesso che si avvicina, dopo i massacri di Gaza, l’ora della verità anche per il Libano. Due grandi incognite incombono sul Medio Oriente dal 7 ottobre, quando gli attentati di Hamas hanno innescato la reazione militare di vendetta israeliana. La prima riguarda il destino del popolo palestinese e la mutazione definitiva di Israele in uno stato illiberale dominato dal sionismo ebraico più radicale d’estrema destra. La seconda è come andrà a finire il braccio di ferro che contrappone Tel Aviv all’ “asse della resistenza” capeggiato da Teheran. Finora l’Iran appare come il vincitore di questo braccio di ferro. Ma questa vittoria sembra ancora fragile e una escalation regionale potrebbe rimettere tutto in discussione fino al punto di minacciare la sopravvivenza stessa del regime iraniano.