Con i petro-dollari si può comprare veramente di tutto, anche le medaglie olimpiche. Alcuni stati del Golfo, in particolare Bahrein e Qatar, lo hanno capito fin troppo bene, come testimoniano i risultati delle ultime edizioni dei Giochi moderni. Se mancano i campioni autoctoni, come è il caso di questi paesi, dove la tradizione sportiva lascia parecchio a desiderare, «conviene» importarli. Basta pagarli profumatamente e nel caso degli stati del Golfo questo è proprio l’ultimo dei problemi. Ma, come vedremo più avanti, ormai questa abitudine è stata acquisita anche in altri angoli di mondo.

JAMAL
La prima medaglia d’oro della storia del Bahrein e di un Paese del Golfo, nelle Olimpiadi di Londra del 2012, fu vinta nei 1.500 della mezzofondista etiope Maryam Yusuf Jamal. In realtà la Jamal si vide consegnare il riconoscimento solo nel 2017, quando le due atlete che l’avevano preceduta sulla pista dello stadio inglese furono squalificate per doping, per cui il record di prima campionessa olimpica del Bahrein poi tecnicamente passato a lei fu detenuto per un anno da Ruth Jebet, che nell’edizione brasiliana dei Giochi (2016) si impose nei 3mila siepi.
JEBET
Anche la Jebet è di origini africane, per la precisione è nata e cresciuta in Kenya, ma è stata «adocchiata» e poi «cooptata» in giovane età dai tecnici del Bahrein. Se la Jamal si è ritirata da qualche tempo, la Jebet non potrà difendere il titolo olimpico perché squalificata per doping. Per completare il tris d’assi dell’atletica bahraina, non va dimenticata la maratoneta di Nairobi Eunice Kirwa, un argento a Rio 2016. L’importanza di un podio olimpico prevale anche sulle convinzioni della fascia più conservatrice della società del Bahrein, che non apprezzava le tenute fin troppo succinte delle atlete, senza però riuscire nell’intento di «coprire» i corpi di mezzofondiste e maratonete.
QATAR
Ma non sono solo le stelle a essere «importate», tanti atleti e atlete di medio e basso livello ingrossano le fila delle squadre anche di altri paesi del Golfo. Per il Qatar alle ultime Olimpiadi concorrevano 23 atleti nati fuori dai confini nazionali su 39: corridori del Sudan, pugili tedeschi, giocatori di beach volley brasiliani e pallamanisti slavi.
Una tendenza che non si sta certo ridimensionando, come dimostreranno le travagliate Olimpiadi di Tokyo. Ai numerosi osservatori e addetti ai lavori che storcono il naso, fanno da contraltare le tante istituzioni sportive che fanno orecchie da mercante e rimangono fin troppo di manica larga nell’avallare i cambi di nazionalità, anche quando l’atleta ha iniziato l’attività per la sua nazione d’origine. Poi ci sono i governi e quel sepolcro imbiancato che risponde al nome di sport washing, ovvero l’opera di cosmesi molto estesa della propria immagine nascondendo sotto al tappeto violazioni dei diritti umani e altre brutture assortite. Una prerogativa dei paesi del Golfo, ma non solo.
Un altro Stato ricco di combustibili fossili come l’Azerbaigian – dal quale l’Italia importa circa il 15 per cento del petrolio e da dove arriva il gas del contestato TAP – sta accreditando la sua capitale Baku come nuovo hub sulle sponde del Mar Caspio. Dai Giochi Europei nel 2015, alle partite di Euro 2020 fino all’appuntamento ormai fisso dal 2017 (con pausa pandemia nel 2020) del Gran Premio di Formula Uno. Quello del circus automobilistico è un forte punto di contatto che l’Azerbaigian ha con vari paesi del Golfo, dagli Emirati Arabi al Bahrein.
LILY ABDULLAYEVA
Sempre per l’Azerbaigian guidato con metodi fin troppo autoritari dalla famiglia Aliyev dagli anni Novanta gareggiava Lily Abdullayeva, nativa di Addis Abeba, che in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Guardian nel 2017 è stata una delle prime a squarciare il velo sulla «compravendita» di atleti. Un fenomeno che purtroppo si sta diffondendo anche in altri paesi i cui governi, spesso non così democratici, sono disposti a tutto per una medaglia olimpica in più. La Abdullayeva ha spiegato che per le sportive di medio profilo, come era il suo caso, alle promesse troppo spesso non facevano seguito i fatti, ovvero i salari da favola e le case esclusive garantite dalle federazioni dei paesi a caccia di talenti stranieri si rivelavano poi solo un miraggio. Anzi, è arrivata a paragonare il trattamento riservato a lei e alle sue colleghe e colleghi a una forma di schiavitù, con emolumenti negati, passaporti confiscati e inganni di ogni tipo per far assumere sostanze illecite atte a migliorare le prestazioni sportive.
Una schiavitù ancora più palese è quella riservata ai lavoratori impegnati per la costruzione degli stadi dei Mondiali di calcio del 2022, il colpo grosso centrato dal Qatar, forse il vero porta bandiera dello sport washing. Se la «crescita» della squadra di calcio, infarcita di stranieri, è stata ostacolata dalla FIFA, che ha imposto regole più rigide sull’eleggibilità dei giocatori provenienti da altre federazioni, negli sport olimpici anche il Qatar prende a mani basse dall’Africa, ma non disdegna un salto nel Vecchio Continente. Nel 2000 l’intera squadra di sollevamento pesi era composta da bulgari naturalizzati.
ARABIA SAUDITA
Rimanendo nella penisola arabica, c’è invece un Paese che ha scatenato polemiche non per la sua politica di «arruolamento» fin troppo disinvolta, ma perché fino al 2012 negava in maniera risoluta la possibilità alle donne di partecipare ai Giochi: l’Arabia Saudita. In teoria avrebbe dovuto essere così anche per l’edizione londinese, ma una protesta globale fece sì che in extremis due atlete saudite potessero partecipare. Da allora qualche timido progresso è stato fatto: è da poco nato il campionato di calcio femminile e a fine 2020 si è svolto il primo torneo di golf per sole donne della storia. Ma certo è alquanto complesso parlare di neo-rinascimento arabo anche nello sport per un Paese in cui fa il bello e il cattivo tempo un personaggio come Mohammed bin Salman, mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi.