Olga Tokarczuk, il passato letterario sotto la frusta dell’Io
Riordinando grazie all’isolamento pandemico testi d’occasione, discorsi e conferenze scritti nel corso degli anni, Olga Tokarczuk ha confessato «quanto piacere mi dia il formato della lezione; rivolgersi e parlare direttamente a persone che mi ascoltano mi dà un’energia che il testo destinato alla lettura solitaria non offre». L’intenso appagamento tratto dall’udire il suono della propria voce traspare con chiarezza fin eccessiva da Il tenero narratore (traduzione di Silvano De Fanti, Bompiani, pp. 264, € 19,00) che paradossalmente confligge con la significatività delle opere narrative della scrittrice polacca. L’insistenza con cui il pronome di prima persona rimbomba in queste pagine non è soltanto acusticamente molesta, ma anche concettualmente incompatibile con la lotta contro il «convolvolo maligno dell’Io» che la scrittrice aveva intrapreso nelle sue prove più riuscite.
Da Casa di giorno, casa di notte fino ai Vagabondi Tokarczuk aveva costruito testi polifonici in grado di trascendere «la prigione non comunicativa dell’io» e di restituire al lettore il senso del legame misterioso che connette tutte le creature: una prospettiva sincretica in grado di abbracciare e svelare le costellazioni dell’essere, che si fonda sulla moltiplicazione dei punti di vista e sulla dispersione dei narratori, non di rado incarnati da figure strambe, liminali, inattuali e inattendibili. Ne risulta una prospettiva non dogmatica, capace di scalfire le certezze del lettore e di precipitarlo nella inesauribile varietà dei possibili mondi di carta.
I temi dell’empatia, dell’antispecismo e delle mutue interrelazioni che tessono il reale erano già ampiamente presenti nei libri di Tokarczuk. Dunque fa ora un effetto strano – a chi abbia amato l’animalista Janina Duszejko, folle protagonista del noir ecologico Guida il tuo carro sulle ossa dei morti – le stesse posizioni rivendicate in prima persona e con piglio moraleggiante dall’autrice nel saggio «Le maschere degli animali», senza alcuna traccia di correttivo ironico (come invece avveniva nel romanzo). È come se la ricchezza dell’invenzione letteraria si fosse appiattita in una voce unidimensionale che anzitutto vuole docere; e in funzione di questa aspirazione all’ammaestramento Tokarczuk tende a reinterpretare la propria produzione creativa: «In quello che scrivo ho sempre cercato di guidare l’attenzione e la sensibilità del lettore verso la totalità, ho provocatoriamente costruito una forma frammentaria…».
Difficile dire come mai la scrittrice, con questo tentativo di autotraduzione dei propri libri in indicazioni da consegnare all’umanità, voglia retrospettivamente guastare ai suoi estimatori il piacere provato un tempo nel leggerli. Molto più interessanti sono le lezioni tenute all’Università di Lodz nel 2018, dove Tokarczuk (che è anche una terapeuta di scuola junghiana) delinea una convincente «psicologia del narratore». Ricostruendo a posteriori i processi mentali che l’hanno portata a determinate scelte, ma anche le casualità intervenute a sciogliere certi dubbi, l’autrice sprofonda il lettore nella molteplicità degli stati d’animo che caratterizzano il divenire della scrittura – dalla frustrazione provata durante un sopralluogo in Podolia alla ricerca dei luoghi dove ambientare l’incipit dei Libri di Jakub, al rammarico di dover rinunciare nello stesso libro all’effetto del riflesso di una fiammella su un ago, dal momento che nel XVIII secolo si cuciva con aghi di legno. Le osservazioni più acute sono forse quelle riguardanti la «forza centrifuga» che durante la stesura di un romanzo si impadronisce dello scrittore, distogliendolo dal proprio io abituale: «Pare proprio che il caos e il trambusto interiore siano la nostra ricchezza più grande».
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento