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Oggi la Procura di Roma al Cairo, la madre di Giulio in sciopero della fame

Oggi la Procura di Roma al Cairo, la madre di Giulio in sciopero della fameL'attivista egiziana Amal Fathy

Giulio Regeni Il team del procuratore Pignatone lavorerà al recupero delle immagini delle telecamere di sorveglianza della stazione della metro di Dokki, dove il giovane scomparve. L'attivista Amal Fathy resta in prigione: la protesta della famiglia del ricercatore

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 maggio 2018

Ci vorranno alcuni giorni ma il processo pare iniziato: partono oggi le operazioni di recupero, attese da due anni e tre mesi, delle immagini delle telecamere di sorveglianza della metropolitana del Cairo, fermata Dokki. È qui, il 25 gennaio 2016, quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, che Giulio Regeni scomparve. Fu ritrovato, il corpo straziato da giorni di atroci torture, il 3 febbraio lungo l’autostrada Il Cairo-Alessandria.

Il team della Procura di Roma, guidato dal pm Colaiocco, è al Cairo: insieme agli investigatori egiziani si metterà al lavoro su uno degli elementi più attesi. I video sovrascritti delle telecamere di Dokki sono stati sempre negati dal regime egiziano, parte di una più ampia operazione di insabbiamento. Prima adducendo una presunta violazione della Costituzione egiziana in materia di privacy, poi promettendo di consegnarli con irritante frequenza per non farlo mai. Ora una compagnia specializzata russa inizia il lavoro

Una volta recuperato, una copia del materiale sarà consegnato alla Procura di Roma. Lo stallo si è interrotto una settimana fa con il via libera del procuratore generale Sadek alla visita del team del procuratore Pignatone. Ci sono voluti quasi due anni e mezzo per ottenere materiale probatorio fondamentale: in quelle immagini potrebbero essere stati catturati gli ultimi istanti da uomo libero di Giulio e le identità dei responsabili della sua cattura, sempre che in questi anni non siano stati manomessi.

Non solo: il team romano potrebbe procedere a nuovi interrogatori dei nove agenti, tra poliziotti e funzionari dei servizi, sospettati di aver preso parte all’omicidio di Giulio.

Resta la responsabilità politica del regime, al di là dei responsabili materiali. E per questa non servono indagini, ma una presa di posizione del governo italiano. Soprattutto alla luce di quanto accaduto quattro giorni fa: l’ennesimo arresto per ragioni politiche, stavolta strettamente connesso al caso di Giulio. Amal Fathy, attivista egiziana e moglie di Mohammed Lofty, consulente della famiglia Regeni e direttore dell’Ecrf, è stata arrestata venerdì.

L’accusa ufficiale è aver denunciato in un video le violenze subite dalle donne in carcere. Per la famiglia di Giulio, il suo arresto è una punizione per l’attività del marito. In ogni caso, l’abuso è palese.

Da ieri la madre di Giulio, Paola Deffendi, è in sciopero della fame che protrarrà fino alla scarcerazione di Amal (in arabo «speranza»). A lei si alterneranno la legale Ballerini e altri esponenti politici (tra loro Laura Boldrini e Monica Cirinnà) e della società civile: «Da donne siamo particolarmente turbate per il protrarsi della detenzione di Amal – spiegano Deffendi e Ballerini – Vi chiediamo di digiunare con noi fino a quando Amal non sarà libera». Sono stati rilasciati il marito e il bimbo di tre anni di Amal, che venerdì erano stati portati via con lei.

I timori sono fondati: per l’accusa di insulto alle istituzioni egiziane, di cui è accusata Fathy, si rischia l’ergastolo e la pena di morte, spiega Amnesty International.

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