Internazionale

Offensiva vicina nel Rojava, Erdogan vuole altra Siria

Offensiva vicina nel Rojava, Erdogan vuole altra SiriaIl presidente Erdogan nella sede della Nato – Ap

Medio Oriente Prima chiama Putin, poi annuncia: «Ripuliremo Tel Rifaat e Manbij» dalle Forze democratiche siriane. Un corridoio turco largo 30 km, lungo quasi l’intero confine, volto a occupazione permanente e ingegneria demografica. Gli Usa: «Non siamo d’accordo»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 2 giugno 2022

Basta aprire una mappa della Siria del nord-est e cerchiare prima i nomi delle città che la Turchia ha già occupato militarmente nell’aprile 2018 (Afrin) e nell’ottobre 2019 (Gire Spi e Serekaniye), e poi quelle che ieri il presidente Erdogan ha indicato come le nuove prede: Tel Rifaat e Manbij.

Appare subito chiara l’intenzione di dare continuità a quel corridoio di terre al confine turco-siriano che Ankara chiama safe zone, ma che nella realtà è l’occupazione ormai stabile di un pezzo di Siria, il tentativo di porre fine all’esperienza del confederalismo democratico nel Rojava e pure il muro fisico al passaggio di persone, combattenti, merci e idee tra Kurdistan siriano e turco.

Ieri Erdogan è tornato a parlare dell’allargamento dell’operazione militare iniziata nell’ottobre 2019, il cui obiettivo – mappa alla mano – è palese: spezzare la continuità geografica del Rojava, occupando l’intera fascia di frontiera.

TRENTA KM di profondità e una nuova gestione politica e amministrativa fondata sulla shari’a. A Gire Spi, Serekaniye e Afrin è già realtà quotidiana, messa in pratica dal cosiddetto Esercito nazionale siriano (l’ex Esercito libero), coacervo di milizie islamiste e jihadiste responsabili di abusi giornalieri sui civili, rapimenti, uccisioni e confisca di terre e proprietà, e di un’ampia operazione di ingegneria demografica.

Avviata con l’espulsione di centinaia di migliaia degli abitanti originari, Ankara vorrebbe completarla con la deportazione di un milione di rifugiati siriani.

«Stiamo procedendo a creare una zona di sicurezza di 30 chilometri lungo il nostro confine meridionale. Ripuliremo Tel Rifaat e Manbij», ha detto ieri il presidente rivolgendosi ai deputati del suo partito, l’Akp, poi da lì si procederà «passo per passo verso altre regioni».

Per ripulire intende la cacciata delle Sdf, le Forze democratiche siriane, federazione multietnica e multiconfessionale che fece la sua prima apparizione proprio in occasione della liberazione di Manbij dall’Isis, poi realizzata nell’agosto 2016. Unità arabe, curde, turkmene, assire, cristiane e musulmane, sotto un’unica bandiera divenuta espressione principe della convivenza possibile tra i popoli mediorientali.

Le parole di Erdogan giungono ad appena due giorni dal colloquio avuto lunedì con il presidente russo Putin, interpellato in qualità di peso massimo militare in Siria. Serve luce verde, come servì ad Afrin: l’occupazione del cantone più ricco del Rojava, nella primavera del 2018, fu possibile grazie al ritiro delle forze russe dal confine.

TELEFONARE A PUTIN serve anche a ricordare all’Occidente che le amicizie vanno coltivate, magari con qualche regalia. «Vedremo chi sosterrà questa legittima operazione di sicurezza e chi si opporrà», ha concluso Erdogan, riferimento affatto velato agli alleati presenti e futuri della Nato.

L’accelerazione di un’operazione già minacciata in passato è facilitata dal bisogno che l’Alleanza atlantica ha della Turchia: deve togliere il veto all’ingresso di Svezia e Finlandia, non a caso da settimane accusate da Ankara di sostenere le unità di difesa curde Ypg e Ypj, colonna portante delle Sdf.

PER ORA WASHINGTON non è troppo d’accordo. Ieri, in una conferenza stampa congiunta con il segretario generale della Nato Stoltenberg, il segretario di Stato Antony Blinken ha avvertito: «(L’operazione) è qualcosa a cui ci opporremmo. Ogni nuova offensiva minerà la stabilità regionale».

Eppure, sotto altre forme, l’operazione è già in corso: senza sosta, da anni ma in queste settimane con più frequenza, la Turchia utilizza la presenza sul terreno delle proprie truppe e dei proxy islamisti per colpire, dal cielo e da terra, le città e i villaggi della Siria del nord-est.

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