A due anni dall’inizio dell’occupazione turca e islamista del cantone curdo-siriano di Afrin, un’esplosione nel centro della città, nel profondo nord-ovest del paese, ha provocato almeno 50 feriti e 46 morti. Molte donne, undici bambini. A saltare in aria un camion di benzina carico di esplosivo, nel mezzo di un mercato affollato in uno dei primi giorni di Ramadan.

Un video pubblicato online dal ministero della Difesa turca e le foto dei Caschi bianchi (corpo di “protezione civile” presente solo nelle aree controllate da islamisti e qaedisti) mostrano una colonna di fumo nero alzarsi dal mercato tra le sirene delle ambulanze, i soccorritori portare via i corpi e spegnere le fiamme che avviluppavano case e negozi.

Immediata la condanna della Turchia che ha accusato il Pkk e le unità di difesa curde Ypg e Ypj di essere gli autori della strage: «I nemici dell’umanità Pkk/Ypg hanno di nuovo preso di mira civili innocenti ad Afrin», dice la nota del ministero della Difesa. Molto simili le parole del Dipartimento di Stato statunitense.

Alle accuse ha risposto Mazloum Abdi, comandante in capo delle Forze democratiche siriane (Sdf), federazione multietnica e multiconfessionale da anni impegnata nel nord-est siriano contro l’avanzata dell’Isis e quella turca, che ha definito l’attacco il risultato della politica di devastazione portata avanti da Ankara e milizie alleate. Prende parola anche il Syrian Democratic Council, braccio politico delle Sdf: «Condanniamo e denunciamo questo codardo atto terroristico che ha preso di mira civili innocenti e che minaccia i residenti rimasti ad Afrin (50-70mila dei precedenti 200mila, ndr) per costringerli a lasciare le loro comunità», si legge nella nota. Che prosegue, accusando «l’occupazione turca e le milizie a cui si appoggia» di terrorismo.

Perché ad Afrin comanda Ankara: dall’operazione Ramoscello d’Ulivo tra gennaio e aprile 2018, le truppe turche hanno preso possesso di uno dei tre cantoni dell’Amministrazione autonoma del Rojava, insieme a milizie islamiste e a quelle legate all’Esercito libero siriano, diventate l’autorità locale. È Afrin ad aver fatto da modello per la successiva occupazione del nord est siriano, lo scorso ottobre. Modello di ingegneria demografica, con la cacciata di centinaia di migliaia di curdi e la loro sostituzione con islamisti e le loro famiglie, e modello di autoritarismo violento.

Le Sdf ricordano ogni violenza: omicidi, rapimenti, confisca di terre, saccheggi di case e negozi. Dal Rojava Information Center ci inviano un database prodotta dalla ricercatrice Meghan Bodette sui rapimenti di donne, con l’elenco aggiornato degli abusi documentati: 50 nel 2019 e già 27 nel 2020. Fatte sparire dalla polizia militare o da quella civile, da milizie islamiste come Sultan Muhammed al-Fateh, Failaq al-Sham o Jabhat Shamiya, detenute per mesi, spesso torturate.

Le accuse: aver denunciato un saccheggio o la sparizione di una figlia, aver partecipato alle elezioni in passato, aver lavorato per l’Amministrazione autonoma come impiegata pubblica, aver lamentato l’aumento del prezzo del pane. Molte di loro sono state liberate solo dopo il pagamento di un riscatto da migliaia di dollari.

Questo è Afrin occupato. Lo sa anche l’Onu che appena due mesi fa in un rapporto della Commissione indipendente di inchiesta sulla Siria accusava le gang affiliate all’Esercito libero e le milizie alleate di Ankara di «crimini di guerra, tra cui presa di ostaggi, trattamenti crudeli, torture e saccheggi». Di conseguenza, aggiunge il rapporto, «se questi gruppi (stimati dalla Commissione in oltre 50, ndr) agiscono sotto l’effettivo controllo delle forze turche, la responsabilità si estende ai comandanti turchi». Sparizioni e arresti, dice l’Onu, sono spesso seguiti alla confisca delle proprietà delle vittime, a partire da animali e ulivi, unica risorsa economica per migliaia di residenti.

Identico modello, prosegue il rapporto, è applicato nelle altre comunità del Rojava occupate dalla Turchia con l’operazione Fonte di pace, iniziata lo scorso 9 ottobre dopo il ritiro Usa e suggellata dalla Russia che ha riconosciuto l’occupazione di un corridoio di 100 km lungo il confine. Un enorme Afrin.