Un paramedico segnato da troppe notti interminabili e troppe tragedie inarginabili, e il suo giovane «apprendista», un ragazzo che si appresta a iscriversi a medicina. Sean Penn e Ty Sheridan, in ambulanza nella città ingrata. Questo, in sostanza, è Black Flies, il film del francese trapiantato a New York Jean-Stephane Sauvaire (Johnny Mad Dog, Punk) in concorso al festival, tratto dal libro parzialmente autobiografico di Shannon Burke. La sintesi non è casuale – si tratta di una storia raccontata altre volte, per esempio in Aldilà della vita, di Martin Scorsese o nel più recente (e più iperbolico) Ambulance, di Michael Bay; e che fa parte di tutte le serie d’ambientazione ospedaliera.

DALLA HARLEM degli anni Novanta (e quindi crack e ghetto) in cui si svolgeva il racconto nel libro di Burke, al quartiere brooklynese di Bushwick oggi: seguendo un po’ l’ evoluzione delle piaghe cittadine, rispetto al crimine «tradizionale» della New York depressa post Reagan, il film di Sauvaire sposta l’accento sul disastro più generalizzato dei servizi sociali e dell’infrastruttura che New York attraversa in questo momento. In mancanza di una premessa originale, Black Flies è ancorato all’intesa perfetta, quasi commovente, tra Penn e Sheridan (che regalano uno o due momenti magici, specialmente quello con un’anziana signora che da’ in escandescenza in una lavanderia) – e allo sfinimento terminal/esistenziale che si nasconde dietro al callo professionale e al volto scavato dalle rughe di Gene Rutkovsky (Penn) e alla vulnerabilità entusiasta di Ollie Cross (Sheridan). Il film è girato in quello che oggi viene definito stile veritè -macchina in continuo movimento, grana grossa, e un corollario di attori non professionisti. In un’ intervista pubblicata sul sito del festival, Sauviere ha raccontato di aver preso appunti passando quasi un anno a stretto contatto con le uscite notturne di un gruppo di paramedici del dipartimento dei vigili del fuoco della città. gdv