Obasanjo prova a mediare, ma la guerra in Etiopia per ora continua
Anche un cooperante italiano tra i fermati Ondata di arresti tra i tigrini, ma il governo centrale nega la matrice etnica. L'ex presidente nigeriano crea le prime timide premesse per corridoi umanitari e cessate il fuoco
Anche un cooperante italiano tra i fermati Ondata di arresti tra i tigrini, ma il governo centrale nega la matrice etnica. L'ex presidente nigeriano crea le prime timide premesse per corridoi umanitari e cessate il fuoco
Fino a un anno fa l’Etiopia era considerata un esempio di Paese stabile, in progressivo sviluppo sul piano economico e sociale. Vent’anni di crescita dell’economia e del reddito pro-capite che è passato dai 482 $ (PPP) del 2000 ai 2.315 $ del 2020 e poi la pace con l’Eritrea, la liberazione di prigionieri politici e la crescente libertà di stampa ne avevano fatto un modello da seguire.
FINO AL 4 NOVEMBRE 2020 quando sono deflagrate le tensioni in atto tra il governo centrale e quello della regione del Tigray. Nel frattempo sono morte migliaia di persone, 63 mila sono fuggite in Sudan, centinaia di donne sono state stuprate. Secondo Human Rights Watch «durante i primi nove mesi del conflitto nel Tigray, le parti in guerra hanno commesso una diffusa violenza sessuale prendendo di mira deliberatamente i centri sanitari» e ovunque vi sono state scene di distruzione. È la guerra, ma a volte la stampa la interpreta come un gioco con delle regole e si stupisce se qualcuno non le rispetta: la guerra non ha regole, la guerra è sopruso, è prevaricazione, è morte.
Sul piano militare il fronte più significativo dello scontro ruota intorno alla città di Mile dove passa l’importantissima autostrada che va da Addis Abeba a Gibuti. I droni TB2 turchi presenti presso l’aeroporto di Harar Meda hanno una portata di 150 km e non sarebbero operativi (Mile è a 600 km).
Nella capitale sono stati effettuati diversi arresti basati sullo stato d’emergenza decretato lo scorso 2 novembre centinaia di tigrini sarebbero in stato di fermo. Secondo Daniel Bekele, presidente della Commissione Etiope per i diritti umani, «sembra che ci sia un elemento etnico in questi arresti che ci preoccupa». Il governo nega la matrice etnica. Tra i fermati anche 16 impiegati e funzionari delle Nazioni Unite e 35 religiosi salesiani.
Per il portavoce del ministero degli Esteri etiope, Dina Mufti, anche il personale Onu e dell’Unione africana «deve rispettare la legge». In stato di fermo anche il cooperante italiano Alberto Livoni della nng Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo). La Farnesina segue la situazione e Livoni è stato visitato dalle autorità consolari. L’arresto si ipotizza sia connesso all’attività umanitaria svolta nella regione del Tigray dove il Vis opera con attività di assistenza (acqua potabile, servizi igienico-sanitari sicurezza alimentare) e formazione professionale sia alla popolazione locale sia ai rifugiati eritrei nell’ambito della quale Livoni avrebbe consegnato del denaro (20 mila dollari) che si sospetta possa essere andato a sostenere il Fronte popolare di liberazione del Tigray, ma al momento, non è stata formalizzata alcuna accusa. Nel Tigray da mesi le banche non funzionano e l’unico modo per far arrivare aiuti è il denaro contante, spiegano dal Vis.
È confermato anche l’arresto di 72 autisti del Programma Alimentare Mondiale avvenuto nella città di Semera. Nel frattempo, dal 18 ottobre, segnalano dall’agenzia Onu per gli affari umanitari, nessun rifornimento umanitario organizzato dall’Onu è arrivato nella regione del Tigray attraverso la rotta Semera-Abala-Mekelle. Circa 364 camion sono fermi a Semera, in attesa dell’autorizzazione delle autorità a procedere.
Sul piano diplomatico l’azione messa in atto dall’ex presidente nigeriano Obasanjo sembra dare qualche risultato, in primis la possibilità di creare corridori umanitari e poi sta creando le premesse per un cessate il fuoco. Ma come ha spiegato, Dina Mufti, «perché il governo federale si sieda per negoziare, ci sono alcune precondizioni che devono essere soddisfatte: primo l’esercito tigrino deve fermare gli attacchi, secondo lasciare le aree Amhara e Afar, terzo, riconoscere la legittimità di questo governo».
Il portavoce del Tplf Getachew Reda l’idea di ritirarsi da Amhara e Afar prima dell’inizio dei colloqui è «assolutamente un non-starter».
Tewodros Hailemariam, esponente di alto profilo del Movimento nazionale dell’Amhara ha dichiarato alla Bbc che «ci sono due opzioni: o il Tplf viene sconfitto e il governo centrale dell’Etiopia si salva; o il Tplf va al potere e prende il controllo di Addis Abeba e in tutto il Paese scoppierà la guerra civile». Niente di nuovo, ma qualcosa si muove.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento