Una sera a cena, in una città non capoluogo di una delle province di seconda fascia della Cina. Al tavolo c’è un gruppo di persone comuni, ma alcuni fanno parte degli oltre 90 milioni di membri del Partito comunista, pur non ricoprendo ruoli all’interno della sua enorme organizzazione.

DIVERSE CITTÀ DEL PAESE sono da poco state teatro di proteste senza precedenti in tempi recenti: per la loro contemporaneità e il modo in cui hanno intrecciato diversi temi. Ne parla tutto il mondo. A quel tavolo, però, non ne parla nessuno. Il più giovane tra loro si chiede se i presenti evitino l’argomento, o semplicemente non ne siano al corrente. Vorrebbe dire qualcosa. Vorrebbe capire che cosa ne pensano quelle persone più anziane, esplorare quanto spazio c’è tra l’essere un piccolo ingranaggio del paese e del partito e la possibilità di parlare delle proteste che ha osservato sul suo smartphone. Dentro di sé non pensa sia una contraddizione, ma alla fine non dice nulla. E resta il dubbio, di quanto sia largo quello spazio, mentre non è mai apparsa così evidente come negli scorsi giorni l’ampiezza della frattura tra una parte della popolazione e il governo.

LE PROTESTE sono concentrate soprattutto su alcune policies e sui loro effetti, a partire dalla strategia zero Covid e dal suo impatto sul fronte economico e occupazionale. I canti patriottici, utilizzati forse anche come carta “negoziale” nella discesa in strada, danno un messaggio implicito: «Non vogliamo sfidare l’autorità del partito, ma fargli cambiare linea su alcuni temi». Eppure, ci sono stati anche slogan diretti contro Xi Jinping. Segnale che qualcosa si è rotto nella comunicazione tra forza politica e forza sociale. Forse sin dallo scorso aprile, da quel lockdown di Shanghai che aveva instillato in molti il dubbio che le restrizioni non fossero più motivate dal benessere collettivo. O che, quantomeno, la loro applicazione non fosse più sostenibile. Dopo due anni in cui ci si era sentiti dire, con delle ragioni, che il modello antipandemico cinese era stato più efficace di quello occidentale, ci si è accorti di diversi episodi di confusione e poca trasparenza. Di inefficienza.

CONTRARIAMENTE a quanto accaduto negli ultimi decenni, l’insofferenza non si è fermata alle amministrazioni locali. Stavolta ha raggiunto quelle centrali, anche perché Xi ha legato la sua immagine alla strategia zero Covid. Difficile accantonarla ora, insieme alle concrete preoccupazioni sanitarie. Una riapertura totale immediata potrebbe causare milioni di contagi e di vittime, secondo degli studi cinesi e statunitensi. Le strutture ospedaliere cinesi, ancora arretrate in alcune parti del paese, non reggerebbero. Senza contare i relativamente bassi dati sulle vaccinazioni tra gli over 80. Le autorità centrali stanno provando ora a spostare l’attenzione su quelle provinciali, chiedendo di eliminare gli “eccessi” messi in pratica da funzionari troppo zelanti. Sono state annunciate anche task force per «rettificare restrizioni superflue». Insomma, le eventuali distorsioni e disumanità non sono colpa delle regole, ma delle loro applicazioni.

POTREBBE PERÒ ESSERE TARDI per riuscire a ottenere il risultato sperato, anche perché il XX Congresso di ottobre ha ulteriormente accentrato il potere nelle mani di Xi. E Li Qiang, colui che aveva supervisionato la gestione del Covid a Shanghai durante il contestato lockdown della scorsa primavera, è stato promosso direttamente al numero due della gerarchia del Comitato permanente. Per questo, al di là degli sviluppi immediati, le proteste possono diventare un precedente rischioso per il partito.

Altre manifestazioni si sono peraltro tenute anche nella notte tra martedì e mercoledì nella città di Guangzhou, che ieri pomeriggio ha poi allentato le restrizioni. Diversi distretti della metropoli hanno annunciato la sospensione dei lockdown temporanei e la riapertura di ristoranti e negozi.

ANCORA UNA VOLTA, segnali di negoziazione implicita. No a proteste e sì a un rafforzamento di controllo e censura sul tema. No a riaperture totali ma sì a parziali concessioni.
In questo scenario volatile si inserisce l’annuncio della morte dell’ex presidente Jiang Zemin. Nel 1989 fu proprio la morte di un dirigente del partito, il riformista Hu Yaobang, a dare maggiore vigore alle proteste che sfociarono nel “massacro di Tian’anmen”. Altrettanto vero che le due figure non sono paragonabili e che le proteste di allora avevano una dimensione fisica e politica diversa. Di più, il governo allora era profondamente diviso.

Oggi invece quello spazio tra partito e leader sembra essere meno ampio che mai, rendendoli quasi la stessa cosa.