Esporre libri in una biblioteca potrebbe sembrare un’operazione del tutto ordinaria. Ma un libro non è un libro, quando a tesserlo o modellarlo è Maria Lai, e la scrittura non è scrittura, né la lingua è una lingua.

Dinanzi ai suoi oggetti-libro, esposti nell’ipnotica mostra L’arte di tessere la libertà, fino al 15 luglio presso la Biblioteca Apostolica Vaticana – a cura di Micol Forti, Simona De Crescenzo, Giacomo Cardinali, Delio Proverbio –, si insinui dunque in chi guarda anche un senso di inquietudine e crisi. Essi talora sono un blocco di terracotta e, per quanto ornati di smalti e oro zecchino, per quanto simulino le morbide curve delle pagine o l’oleosa superficie delle onde marine dei Diari di bordo, sono tuttavia murati e non è dato sapere se sigillino un cuore che non ci è concesso, o nulla. Talora li ricopre una crosta di pane, nessuna carbonizzazione, bensì una fragrante doratura, ma immangiabile.

Su una candida tovaglia, l’Invito a tavola apparecchia una mensa di libri e pani di terracotta per i convitati, ma è un granitico offertorio: l’arte è fame, che non passa. Talora sono libri cuciti, il nucleo eminente dell’allestimento: una rilegatura di fogli di stoffa o carta, altrove scompaginati e stesi ad asciugare, come Lenzuolo, dopo chissà quale alluvione.

Nei libri cuciti l’elemento di crisi è manifesto, drammatico. Essi sopportano sulla propria pelle, pagina dopo pagina, la scarificazione con ago e filo di grafemi non ascrivibili ad alcuna lingua storica, segni simbolici e fantastici, che però, ecco dove il filo stringe un nodo nevralgico, imitano con la maniacalità di un eccezionale calligrafo, morfologie, ritmo e segmentazioni di una lingua convenzionale, ma introducendovi clandestinamente, camuffato da ortografia, un dettato radicalmente eterodosso.

‘Illeggibili’, così Lai stessa definì i suoi primi libri cuciti a macchina, esposti nel ’78 alla Biennale di Venezia, e questo fa di lei una personalità molto più tortuosa e insidiosa di quanto il suo patrimonio fabuloso e schiettamente regionale lasci credere.

L’illeggibile figurato da questa eccezionale artista sarda ci pone all’intersezione di coordinate divaricatissime, dagli ancestrali miti agrari al più ostentato formalismo, dall’urgenza di inferire senso dal flusso di una trama disgregata al suo opposto: minare il senso, nel cuore stesso delle sue implacabili guardiane, la lingua e la scrittura.

Maria buca da parte a parte il limine, lei rediviva, portavoce di annunci impronunciabili.

Maria nasce nel 1919 a Ulassai, tra ipogei e strapiombi abitati da creature leggendarie, come le Janas del culto dei morti, alle quali sembra aver sottratto lo Scialle mentre si dileguavano nella notte. Eppure, dire di sé «io non sono sarda, io sono la Sardegna», significa sottrarsi all’automatismo di ogni scontato attributo e contraddire persino l’appartenenza al luogo.

Antica gestualità del tessere e dell’impastare, telaio e macchina da cucire, ovvero i più esorcistici feticci del potenziale eversivo e stregante del femminile, rurale e urbano che sia, primordiale e postcontemporaneo, Maria ne fa strumenti di un’abrasione della convenzione, deviando la comunicazione linguistica fino alla asemanticità, ulteriormente esacerbata da quel groviglio psicotico di fili che esuberano come un pre-testo ai margini delle stoffe su cui incide il contrordine del suo afasico gergo.

Calligrafa di una pseudolingua, Maria non è l’alter ego di nessuna mitica tessitrice, poiché sola cuce parole, ma traviandole, inscenando la bella scrittura fino al manierismo, mimando ad altissimo grado ciascun elemento grammaticale di una madrelingua con assoluto, mistificante mimetismo, ma il significante non promuove alcun messaggio, bensì una semantica della frode, un sortilegio analfabetico: quell’ago inietta in noi il timore che cucite siano anche la sua lingua e la sua bocca.

Non è sarda, Maria, e forse «essere la Sardegna» significa non appartenere al continente dei codici, ma essere i-sola e come le rotte marittime tratteggiate sulle cartine, arpionare quei segni con funi di filo pendenti, a scongiurare un’unanime deriva delle terre emerse.

Aperto in una teca c’è il suo taccuino d’appunti, dove annota: «Di me resteranno soltanto la mia nudità, la mia nullità, il mio vuoto, a dirmi che io sono una cosa sbagliata».

Maria Lai
«Di me resteranno soltanto la mia nudità, la mia nullità, il mio vuoto, a dirmi che io sono una cosa sbagliata»

Era cagionevole sin da piccola e crebbe con gli zii, a intrattenersi nelle pratiche muliebri come giochi, a guardare la nonna rammendare e a dirle «queste lenzuola sono scritte» e a sentirsi rispondere «leggile», allora «mi inventavo delle storie che mi facevo suggerire dai movimenti dei fili aggrovigliati».

Ci vuole un’antenata capace di dare una risposta esorbitante e una bambina sbagliata, minata nella salute, perché quel Garbuglio d’essere, quel Kaos di prassi, memorie, oralità e scrittura inneschino una storia diversa, che, nel tempo, da unica allieva donna del corso di scultura di Arturo Martini all’Accademia di Venezia, la porterà sulla scena internazionale, col tramare del suo eteronomo vernacolo, per nulla lingua morta, ma forse, adottando la definizione che Zanzotto diede del dialetto, logos erchomenos: parola che, messianicamente, viene.

Ma lo stato di crisi tra memoria e scrittura apre un altro scenario ancora, in cui la Biblioteca del papa diviene co-protagonista della mostra. Il Fedro platonico racconta il mito del dono della scrittura che il dio egizio Teuth fece al faraone Thamus, quale pharmakon per la memoria. Il faraone, però, tacciò la scrittura di essere, al contrario, foriera di dimenticanza poiché allontana gli uomini dalla verità dell’insegnamento orale.

Jacques Derrida vi evidenziò l’equivocità del significato di pharmakon: medicamento e veleno al contempo. Il valore di questa mostra sta anche nell’esibire come la Biblioteca Vaticana inocula e reagisce al pharmakon di Lai. Allora emerge dalla raccolta pontifica, a creare una punteggiatura con le sue opere, un arcipelago di volumi di straniante fattura, datazione e provenienza.

Dall’Etiopia al Giappone, dalla Nuova Caledonia all’India, merletti, sete, broccati, fibre d’agave, rame, foglie di palma, cortecce di cedro fasciano breviari, manoscritti, bolle, L’Orlando Furioso, fino a una residuale legatura lignea del XV secolo: quasi un libro-reliquia, appena due brandelli di legno tenuti insieme da un logoro filamento, il più mistico di tutti. Squadernato, aperto, a farsi anch’esso, come Maria, nudità, nullità, vuoto.