La redazione consiglia:
Cuba, cuore e paroleIl festival “Jazz Plaza” rappresenta da quasi quarant’anni (siamo giunti alla trentottesima edizione) l’innesto di una pianta dalle radici profonde come la musica latina in un’altra dalle radici altrettanto profonde e tentacolari come il jazz. Una rassegna che agita i prosceni di decine di spazi a Cuba e che nel 2023 si è diviso tra L’Havana e Santiago in un range cronologico che ha coperto la settimana dal 22 al 29 Gennaio. Tanti eventi, alcuni dei quali sovrapposti, per cui anche noi, che avevamo deciso di seguire solo parte della programmazione fissata nella capitale cubana, abbiamo dovuto fare scelte, anche dolorose, e limitarci ad un ascolto parziale, pescando tra le decine di esibizioni fissate in prosceni storici per questo festival, come il Teatro Nacional de Cuba, il Teatro America, la Fàbrica de Arte Cubano (che ha ospitato anche le conferenze e le proiezioni di documentari) e i nuovi spazi che sono stati abitati per la prima volta dal Jazz Plaza, come il Teatro Martí (appena ristrutturato), il Museo Nazionale di Belle Arti, il Centro Culturale Bertold Brecht e il Macubá Teatro Café. Più che un semplice festival jazz, il Jazz Plaza è una vera e propria festa Latin Jazz con escursioni nella World Music e nel Funk. Come capitato in ogni edizione di questo festival la cui direzione artistica è affidata al celebre pianista cubano Roberto Fonseca, ci sono stati innanzitutto omaggi espliciti agli elementi essenziali e ai personaggi nevralgici della storia della musica cubana: omaggi multipli a Chano Pozo, Leonardo Acosta e Bobby Carcassés, il repertorio di Pablo Milanés rivisitato dal pianista Jorge Luis Pacheco, quello di José Luis Cortés “El Tosco” da Germán Velazco, mentre il chitarrista Dayron Ortiz ha omaggiato in versione strumentale il canzoniere di Marta Valdés (con quest’ultima, oggi 88enne, che ha fatto una passerella proprio in quest’occasione per ricevere gli applausi dell’audience del Teatro Nacional).Affascinante il lungo set dei cubani Los Muñequitos de Matanzas che manteneva una sua ferrea coerenza nel segno della rumba. 

NEL VASTO proscenio del Nacional, piazzato proprio di fronte alla Plaza de la Revolución (presidiata dalle sagome del Che e di Camillo Cienfuegos e dal Monumento a Josè Martí), si sono alternati gruppi dal forte richiamo locale e dalla non sempre esaltante cifra creativa. Un poco raffazzonato, nonchè sbilanciato dal continuo arrivo di “guests”, il set del pianista cubano di stanza negli Stati Uniti, Ignacio (Nachito) Herrera con “su Habana Jazz Plaza Orquesta”; un poco anacronistico il progetto degli habaneri Síntesis, che pure hanno fatto la storia della musica alternativa di Cuba e si sono recentemente aggiudicati un Grammy latino con l’album “Ancestros Sinfonicos”. Un taglio stilistico il loro, che alternava folk, prog-rock, psichedelia e pop, con qualche disequilibrio nel mix. Molto bene invece il progetto acustico dell’argentino Chango Spasiuk che dopo essersi esibito qualche giorno prima al fianco della grande Omara Portuondo ha portato il suo quartetto nella Sala Avellaneda del Teatro Nacional componendo un set di quella che viene solitamente definita “musica del Litoral”, musica campesina con una verve irresistibilmente danzante, nobilitata non solo dalla fisa di Chango, ma anche dal lavorio al cajon peruano di Marcos Villalba. E benissimo infine, sempre al Teatro Nacional, per quel che riguarda il lunghissimo concerto (quasi tre ore) dei cubani Los Muñequitos de Matanzas. “70 años después” si intitolava il loro set e pur essendo anch’esso stipato di ospiti manteneva una sua ferrea coerenza nel segno della rumba.

FONDATO il 9 ottobre 1952, sotto il nome di Guaguancó Matancero, il gruppo ha nella sua vasta discografia titoli come “El Guaguancó de Matanzas”, “Rumba Caliente” e “Live in New York”. Con l’album “La rumba soy yo”, che ha riunito i migliori rumberos dell’isola, ha vinto il Grammy latino nel 1997. Il riferimento nell’insegna a Matanza è quello appunto a una delle due città, l’altra è l’Avana, dove questo genere di matrice folclorica, poi ibridatosi in mille rivoli, è nato e si è sviluppato. Los Muñequitos de Matanzas ne hanno celebrato in teatro una sorta di decalogo esauriente e completo, palleggiando magistralmente i propri brani, tra rumba yambú, rumba guaguancó, rumba columbia e sciorinando una classe sopraffina sempre limitrofa a una sorta di selvaggeria sensuale e ribalda. Memorabile anche la serata fissata nel Teatro América, un tempio dell’Art Decó habanera, aperto nel 1941 nella Calle Galeano. Di scena dapprima gli haitiani RasinMwen Project con il loro hard-bop muscolare e puntuto e poi il travolgente combo statunitense Jungle Fire, dedito ad un funk che si specchia nella rumba, nella cumbia e nell’afrobeat. Quanto alle esibizioni legate ad un jazz più ortodosso meritano una menzione senz’altro quelle del cantante barese Fabio Lepore con la Jazz Band del Conservatorio Amadeo Roldàn de l’Avana, del trombonista statunitense Steve Turre e dei trombettisti Carlos Sarduy e Yasek Manzano Silva. Questi ultimi tutti al Teatro Martí, un proscenio piazzato proprio al limitare dell’Habana Vieja, tra le strade che vedono sfilare le Buick e le Dodge anni ’50, rigenerate miracolosamente anno dopo anno dai meccanici habaneros. Di fronte al Teatro, lo scheletro ancora pericolante dell’Hotel Saratoga, distrutto da un devastante incendio nel maggio dello scorso anno.