Carlo Nordio ormai è un caso. Nelle stesse ore in cui Sergio Mattarella spiegava a Giorgia Meloni che abbassare i toni della polemica con la magistratura fosse interesse di tutti, «anche del governo», il ministro della Giustizia concedeva al Corriere della Sera un’intervista per rilanciare ancora una volta i soliti argomenti: concorso esterno da rimodulare, imputazione coatta «irrazionale», abuso d’ufficio da abolire, separazione delle carriere da fare al più presto.

Quest’ultimo punto è stato anche oggetto di un nuovo intervento del ministro: «Probabilmente lo porteremo nella prossima riunione di maggioranza, prima delle vacanze estive, per definire le tempistiche», segno che, almeno lui, di seppellire l’ascia di guerra non ne ha alcuna intenzione.
E ALLORA APRITI CIELO. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia a Radio Anch’io ha parlato apertamente di «pericolo per la democrazia», chiarendo che quando il discorso prenderà concretamente piede l’associazione dei magistrati non resterà certo a guardare ma darà battaglia in lungo e in largo. Del resto, aggiunge, «le nostre critiche mi pare abbiano trovato ascolto al Quirinale…». Nel merito, Santalucia sostiene che «un pm separato dalla giurisdizione, e quindi fuori dal meccanismo di compensazione e controllo che prevede la Costituzione, lo lasceremo solo? Si controllerà da solo o ci sarà qualcuno che ambirà a quel controllo? Quello non potrà essere che il potere politico. Credo che occorra stare molto attenti».

Separare la magistratura inquirente da quella giudicante è un antico pallino della destra italiana, ma sin qui nessuno ha mai provato sul serio a fare questo tipo di riforma. Non che la faccenda non sia mai stata affrontata: nel 2006 la riforma Castelli ha reso molto più complicato il passaggio da pm a giudice, e infatti da allora sono pochi quelli che ne fanno richiesta (meno dell’1% secondo i dati del Csm).

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Pure Marta Cartabia, nel 2022, si è applicata sul punto, riducendo da quattro volte a una sola, entro i primi 10 anni di carriera, la possibilità di cambiare ufficio, cosa che, da sempre, costringe chi decide di farlo a trasferirsi in un altro distretto e in un’altra regione, salvo i rarissimi passaggi dal civile al penale e viceversa. La quotidianità giudiziaria italiana, in altre parole, non verrebbe minimamente toccata e la vera grande questione – quella dei tempi della giustizia – non ne trarrebbe alcun beneficio.
AD OGNI BUON CONTO, per il governo Meloni la separazione delle carriere sembra essere la pancia della legislatura, e poco importa se il percorso sarà lungo e rischioso: dopo aver definito le tempistiche, come dice Nordio, si renderà necessario mettere a punto una riforma che andrà a toccare in modo molto pesante la Costituzione, poi bisognerà passare alla prova del dibattito parlamentare e poi ancora, verosimilmente, alla sfida finale del referendum.

A correre come treni in pianura ci vorrebbero almeno due anni per fare tutto. E non che la partenza sia stata delle migliori: i terzopolisti Costa e Giachetti segnalano che in Commissione affari costituzionali di giudici e carriere non se ne parla da oltre quattro mesi e tutti sono fermi in attesa della presentazione di un disegno di legge da parte del governo.
LA MAGGIORANZA, ALMENO sulla carta, appare piuttosto compatta, con significative aperture che arrivano anche dalle parti Azione e di Italia Viva, tendenzialmente favorevoli a riformare la giustizia e in linea con l’idea di dividere i percorsi di giudici e pm. «Noi andiamo avanti senza esitazione. Poi le aule sono sovrane, questo è il senso della democrazia parlamentare», ha detto il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, sostenendo inoltre che la separazione delle carriere è già negli articoli 104 e 111 della Costituzione.

Per quello che riguarda la ventilata modifica del concorso esterno, nonostante l’insistenza di Nordio, la faccenda pare destinata a scomparire nell’oblio. Persino Salvini è intervenuto per dire che non è una priorità, e lo stesso Nordio, sempre sul Corriere, ha affermato che nel programma di governo non c’è nulla del genere e che lui ha espresso un’opinione perché gliel’avevano chiesta. A svelenire un po’ il clima, infine, potrebbe contribuire un’eventuale decisione del governo di accettare gli emendamenti sul ddl presentato all’indomani della morte di Berlusconi, quello con dentro la revisione dell’abuso d’ufficio. L’ipotesi è in piedi, ma la decisione è tutta nelle mani del governo.