C’è da dubitare che l’analisi sociologica dei movimenti, vale a dire l’esame delle condizioni sociali dei soggetti che vi partecipano, sia sufficiente a illuminarne la natura, a spiegarne evoluzione e comportamenti. Basti ricordare un fenomeno complesso ed esteso come il Sessantotto per sottolineare i limiti di questo strumento. Impossibile ricondurre quell’insorgenza planetaria a una qualche tassonomia di profili sociali. Si può tentare, allora, di misurare direttamente l’azione dei movimenti, i loro linguaggi, le loro rivendicazioni, le forme nelle quali emergono e le circostanze in cui si inabissano con i tratti più generali del loro tempo.

È a partire da questo confronto, certo azzardato e tutt’altro che esauriente, che il movimento dei gilet gialli può dirci qualcosa di non effimero. Ed è su questo, sullo “stato di cose esistente” e sul suo rifiuto, che converrà interrogarlo.

I movimenti hanno sempre avuto un cattivo rapporto con la rappresentanza. È dai suoi fallimenti (o “tradimenti”) che essi traggono naturalmente legittimità e forza. Da sempre si pongono come superamento o principio critico permanente della democrazia rappresentativa. Tuttavia, sia pure in una dimensione ineluttabilmente conflittuale, tra rappresentanze e movimenti si davano rapporti e interazioni non privi di conseguenze. Ma cosa accade quando la rappresentanza politica si è ridotta a una esistenza spettrale e i corpi intermedi, travolti dallo strapotere dell’esecutivo, si sono liquefatti, o lottano per modeste forme di sopravvivenza? Chi insorge si trova di fronte al potere incondizionato e arbitrario di concedere o di negare, di elargire o di prelevare. Lo scontro, allora, non può che essere frontale con una sovranità che, per quanto svuotata dai processi globali, brandisce comunque il segno del comando sulla base di un effimero carisma e della forza repressiva di cui dispone. E si trova, però, a render conto senza rete del rapporto diretto con il “popolo” o la “nazione” da cui pretende di trarre tutte le sue prerogative.

Dai tempi più remoti la forma più odiosa di fiscalità, il prelievo sovrano per eccellenza, è stata la tassazione indiretta: quella alla quale neanche il più povero dei poveri sfugge: tasse sulla farina, sul legno, sul carbone, sul bisogno primario di nutrirsi e riscaldarsi, sono state all’origine di infiniti, violenti moti popolari. Una imposizione che sbarra l’accesso alle risorse essenziali o lo limita a livelli di sussistenza, salvaguardando però i profitti dei grandi proprietari delle fonti energetiche e agroalimentari. Il costo dei consumi di energia è il fattore principale che riduce all’osso la disponibilità monetaria dei ceti medio-bassi. Ed è una tassa “collettiva”, un’esperienza comune dei poveri e degli impoveriti. Un vero e proprio simbolo condiviso di ingiustizia.

Non è un caso che i liberisti di rado se la siano presa con le accise, se non per esigere generosi sconti a favore delle imprese. E che invece proprio su questo terreno sia dilagato il movimento dei gilet gialli conquistando un estesissimo consenso. Anche contro una sinistra statalista che ha fatto della fiscalità (e della sua ormai del tutto immaginaria destinazione sociale) un intoccabile tabù.

La richiesta di abolire la sovrattassa sui carburanti è però solo il detonatore di una rivendicazione ben più generale di semplice e disarmante radicalità: «Più soldi in tasca!». Dopo decenni di attacco ai salari, di erosione dei redditi, di miserie precarie, di peggioramento dei servizi sociali e dei livelli di vita, ai più la misura appare colma. Qui non si chiede lavoro (quello che c’è è vergognosamente malpagato e quello che verrà sarà anche peggiore), non si chiedono salvifiche riforme, non si chiede di mostrare i denti all’Unione europea in difesa dei Francesi, né si invoca il soccorso dello stato sovrano contro oscuri complotti cosmopoliti. Si chiedono le dimissioni di un presidente che i soldi non li molla perché legato a doppio filo con quelli che li accumulano e se li tengono stretti. È un movimento di poveri (molti diversi soggetti si celano dietro queste definizioni) che non ci stanno più a tirare la cinghia. «Più soldi in tasca!» è una parola d’ordine destinata a far saltare molti equilibri, a mettere alla prova la retorica interclassista dei “populismi”. Prima o poi il massimalismo neoliberale doveva incontrare un massimalismo di segno contrario. Potenzialmente altrettanto radicale e indisponibile alla mediazione. E che coltiva nella sua pancia una violenza che fa decisamente paura.

Un gilet giallo, non è una bandiera portatrice di storia e ideologia, potrebbe essere un berretto arancione, una maglietta a strisce o un qualunque altro segno di riconoscimento. È semplicemente l’esplicitazione dell’appartenenza a un “noi”. Non è però il noi del “popolo sovrano”, né il noi nazionale, non è, soprattutto, un noi identitario. È il “noi” che stiamo facendo questo in questo momento, che ci stiamo battendo contro questo e quello, che non ne possiamo più delle cose così come stanno. È quel “noi” che si costituisce nella lotta, al quale nessun feticcio identitario può resistere a lungo e la cui estensione è impossibile prevedere. È il popolo che si costituisce contro l’ordine sovrano, quello che Hobbes avrebbe stigmatizzato come “moltitudine”. Infine un “noi” che nel suo ostentato bastare a sé stesso non tollera al suo interno alcuna differenziazione, alcuna distinzione di ruoli e di funzioni. E in questa forma si espande e si riproduce.

Nella storia di Francia è qualcosa come un gene “comunardo”, un’aspirazione all’autogoverno, quasi un bisogno esistenziale che ricorrentemente alimenta questa esperienza collettiva. Ma anche nel resto d’Europa le promesse dei demagoghi nazionalisti non tarderanno a scontrarsi con le reali condizioni di vita dei cittadini e con le costellazioni di potere che le determinano. E allora un gilet di qualche colore potrà scendere in piazza senza troppi complimenti.