C’è qualcosa di unico, che commuove e sorprende ogni volta nella passione di Jafar Panahi per il fare-cinema: un’ostinazione la sua morale, politica, e un gesto di resistenza con cui scomporre e ricomporre la realtà, l’umano, i conflitti, i paradossi; svelare quanto si cela dietro abitudini e sguardi pigri opponendo il dubbio alla certezza, il pensiero critico alla manipolazione. È una fiducia, quasi una fede, il cinema è più forte della religione nella sua verità, perché non oscura e non chiede adesione cieca, al contrario testimonia e insieme rivela, interroga costantemente la propria materia: al Corano il suo nuovo personaggio – che è anche se stesso – preferisce la potenza della macchina da presa per registrare un giuramento che solo in questo modo non potrà mai essere negato.

«NO BEARS» – Gli orsi non esistono, che in Italia uscirà con Academy 2 il 6 ottobre – è il nuovo film del regista iraniano, arrivato in chiusura di concorso ieri e subito tra i Leoni di questa 79a edizione. E non perché Panahi è stato condannato lo scorso luglio a sei anni di carcere dal regime oscurantista iraniano per avere firmato una lettera pubblica contro l’arresto arbitrario del regista Mohammad Rasoulof; o perché da anni è obbligato a rimanere nel Paese, a non prendere la parola pubblicamente, a non girare film, un confino nell’invisibilità e nell’oblio (è una delle armi predilette delle dittature) che dimostra quanto spaventino sempre e ovunque le teste pensanti. È che quella di Panahi è una scommessa (sul cinema) senza vittimismi, di chi nelle immagini e tra le geometrie delle parole inventa un proprio spazio e prova a abitarlo.

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Arrestato Jafar Panahi in Iran, un attacco feroce alla libertà d’espressioneCosa racconta Gli orsi non esistono? Nell’incastro di messinscena e realtà che fonda i suoi film, in cui ciascuno è una persona perché prima diventa un personaggio, e ogni storia racchiude un’esistenza, si impongono le domande che sorgono dal vissuto e dalla sua narrazione perché il cinema può anche tradire o essere tradito dal flusso della vita «reale». C’è un regista che sta girando un film «a distanza», è lo stesso Panahi, dall’Iran dirige la troupe e gli attori in Turchia e per essergli più vicino si è installato in un piccolo villaggio sul confine dove la rete funziona malissimo, il tempo sembra essersi fermato, ma la gentilezza della madre del suo padrone di casa compensa le frustrazioni. La storia del film è quella di una coppia iraniana fuggita in Turchia che cerca di arrivare in Europa; però non ha i documenti e è costretta a percorrere la strada dell’illegalità. Anche Panahi dovrebbe passare il confine clandestinamente sollecitato dal suo aiuto regista che ha bisogno di lui sul set. Quando però pone un piede sull’invisibile linea che separa i due paesi arretra e torna indietro, eppure sembrerebbe facile attraversarla, se non ci fossero gli interessi di trafficanti e altre economie criminali. Ma non è quello a spaventarlo: la sua scelta è quella di rimanere, di non fuggire, di affermare una parola pure se destinata alla sconfitta.

UN GIORNO il villaggio irrompe nel «quadro» del suo piccolo universo isolato: lo percepivano come un straniero, lo guardavano con sospetto, chissà cosa fa lì, perché ci è arrivato dalla città: ora lo accusano, vogliono una fotografia che avrebbe scattato a due ragazzi per una vicenda di faida famigliare, lei promessa dalla tradizione alla nascita a un altro che ama il giovane studente tornato al villaggio perché espulso dall’università per avere partecipato a delle manifestazioni. Il regista però non l’ha mai fatta, è pronto a consegnare al consesso di soli uomini (ovviamente) l’intera memoria della macchina fotografica.

La redazione consiglia:
L’indomabile Jafar PanahiNon lo credono e intorno a quell’«immagine mancante» inizia un processo (senza tribunali) che coinvolge istituzioni, famiglie, religione, tradizione: le paure che concedono agli altri un «enorme potere», come quella degli orsi che in realtà non esistono.
Le autorità producono testimoni, un bambino di nove anni le cui parole però non avrebbero alcun valore in tribunale e neppure con la sharia: «Però volete usarle contro di me» replica Panahi costretto per la pacificazione a un «giuramento» la cui verità non conta, è solo questione di apparenza. Quel luogo il cui solo orizzonte si apre sulle luci oltre la frontiera diventa un teatro che riflette la violenza paradossale delle autorità in Iran oggi, a cominciare dalla volontà di cercare un’evidenza che non esiste, un’immagine che non è mai stata creata, ma di cui c’è bisogno per accontentare – contro ogni desiderio delle persone interessate – il volere comune.

PANAHI non si limita alla registrazione dei fatti – non è quello che lo ha mai interessato in nessun film; il suo protagonismo che solleva la dimensione politica diviene in questo suo nuovo racconto morale un modo per interrogarsi sul proprio dispositivo stavolta ancora più radicale che in film come Closed Curtain (2013) o l’Orso d’oro a Berlino Taxi Tehran (2015). A partire dal confronto con la società sollecita una serie di domande che riguardano il suo ruolo di artista, la sua scelta di rimanere nel Paese, quello delle sue immagini che non possono mai essere distratte o casuali. Intanto sul set le vite di due personaggi che sono state l’ispirazione si rivoltano alla trama: si sentono traditi, lei gli grida che anni di prigione, torture, disperazioni sono diventati falsi nella sua ricostruzione. E cosa sarà di quei giovani del villaggio che per vivere il loro amore sono disposti a rischiare la vita pur di andare via, di superare quella frontiera nella quale lui è invece rimasto? Si potrà trovare un modo per dire la loro storia, il futuro che gli è negato? Lui ci prova, si mette in gioco tra gli inciampi e le battaglie che si trova a sostenere nello sguardo di un cinema che non si arrende.