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Nina Lakhani, «L’Honduras non è un paese per attivisti, indigeni e media»

Nina Lakhani, «L’Honduras non è un paese per attivisti, indigeni e media»La richiesta di giustizia per l’ambientalista Berta Cáceres, assassinata nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016, fuori dal tribunale di Tegucigalpa in cui si è celebrato il processo agli esecutori materiali – Ap

Berta Cáceres 5 anni dopo Nina Lakhani, autrice di un'inchiesta sull'uccisione: Contro Berta anni di minacce, molestie sessuali, violenza... L'obiettivo era quello di neutralizzarla. Quando hanno visto che non si sarebbe arresa, l'hanno eliminata

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 2 marzo 2021

Chi ha ucciso Berta Cáceres?. La domanda, tutt’altro che evasa con i sette esecutori arrestati e processati finora per la morte dell’attivista honduregna, è il titolo del libro della britannica Nina Lakhani, l’unica giornalista internazionale ad aver seguito tutte le fasi delle indagini sul caso.

Il libro reportage, appena uscito in Italia (Editrice Capovolte), presenta la lunga indagine di Lakhani sull’omicidio di Cáceres e l’intero contesto che lo ha favorito: dal colpo di stato che ha deposto Manuel Zelaya nel 2009 ai conflitti tra comunità indigene, lo Stato e le multinazionali, il volume cerca di dimostrare perché oggi l’Honduras è uno dei paesi più pericolosi per attivisti, giornalisti e indigeni.
Lakhani viveva a Città del Messico e copriva l’America Latina per il giornale britannico The Guardian quando Cáceres è stata uccisa il 2 marzo 2016. Allora – lo racconta al manifesto – ha avviato un lavoro d’inchiesta per il giornale, successivamente approfondito nel libro.

Lei ha sofferto minacce e intimidazioni per il suo lavoro d’inchiesta. Come ha vissuto questa esperienza?
Mesi dopo la morte di Berta, ho pubblicato un articolo su un elenco di persone che dovevano essere eliminate e ciò includeva il nome dell’attivista. Il fatto ha generato una forte reazione da parte delle forze armate dell’Honduras, che hanno accusato me e il Guardian di volerne infangare la reputazione. Hanno pubblicato articoli falsi su di me e mi hanno accusato di essere una «terrorista mediatica». Quando andavo in Honduras, arrivavo sempre via terra, via Guatemala, e cercavo di cambiare le mie rotte, i luoghi in cui soggiornavo. Ma quello che ho passato non è niente in confronto a ciò che affrontano i militanti honduregni, che subiscono quotidianamente minacce e violenze, dal momento che questo è il modus operandi delle forze che comandano il Paese.

Lei ha affermato in precedenza che Berta Cáceres si comportava negli ultimi mesi come se sapesse di poter morire da un momento all’altro.
«L’assassinio di Berta è stato l’ultimo passo di una campagna lunga anni che comprende minacce, molestie sessuali, violenza, tutte le pratiche di una guerra fredda contro di lei e la sua organizzazione. L’obiettivo era neutralizzarla e farla smettere di lavorare. Quando hanno visto che non si sarebbe arresa, l’hanno uccisa. Anche se sembrava improbabile: era l’attivista più conosciuta nelle Americhe, ha ricevuto il Goldman Prize, ha persino avuto un’udienza con il papa. I suoi figli non credevano che le minacce subite da anni si sarebbero concretizzate.

Perché la sua morte può essere considerata emblematica?
Oltre a essere una difensora dei diritti ambientali e umani, Berta aveva anche una capacità unica di negoziare con presidenti e contadini e di unire diversi gruppi. Ha avuto un ruolo molto importante nelle proteste sociali. Era riconosciuta in tutto il mondo e quindi rappresentava una minaccia per il progetto economico. Inoltre, è stato un crimine d’odio: l’Honduras è un paese molto maschilista ed è importante notare che lei è stata uccisa anche perché era una donna, una donna indigena. E questo lo Stato non lo ha mai riconosciuto.

Il processo si è concluso con la condanna di sette persone. Era il risultato aspettato?
La pressione internazionale è stata essenziale perché ci fosse un processo. Tuttavia, i sette condannati erano sicari. Ad oggi, nessun mentore ha affrontato la giustizia. Il presidente della Desa (la compagnia che progettava di costruire la diga sul fiume Gualcarque, che Cáceres ha cercato di impedire), David Castillo, è stato arrestato dopo due anni. È l’unico accusato di essere mandante del crimine. Tuttavia, vi sono ampie prove del coinvolgimento di altre persone dell’azienda, membri di famiglie potenti, funzionari statali, ministri, comandanti di polizia che hanno avuto un ruolo nella morte di Berta per negligenza, omissione, per la campagna di terrore contro la comunità indigena di Lenca. Nessuno di loro è stato costretto a dare spiegazioni.

L’America Latina è la regione più violenta al mondo per quanto riguarda attivisti ambientali e dei diritti umani. A cosa si deve questo dato?
Alla certezza dell’impunità unita alla battaglia per le risorse naturali. Da un lato, abbiamo comunità indigene che vivono di queste risorse. Dall’altro, gli interessi economici. Questa lotta risale al colonialismo e ora, con le risorse naturali prossime all’esaurimento, si sta intensificando. Sono coinvolte anche le élite economiche, i politici, i militari e gli investitori internazionali che promuovono “energia pulita e rinnovabile” nelle comunità che saranno distrutte da quell’energia. Le banche internazionali stanno pagando per ogni omicidio finanziando quelli che Berta Cáceres ha chiamato «progetti di morte». Agiscono senza consultare le comunità, violando i diritti dei popoli indigeni, generando conflitti e spostamenti forzati.

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