«Mentre giravo Sur l’Adamant, che per me era quasi un isolotto nel suo esistere sull’acqua, sapevo che era parte di un polo ospedaliero più ampio ma non volevo pensarci, temevo di disperdermi. Poi però ho capito quanto queste strutture sono complementari, come gli assistiti circolano fra loro costruendo ciascuno una propria cartografia». Così Nicolas Philibert parla del suo nuovo film, Averroès & Rosa Parks, con cui torna alla Berlinale dopo l’Orso d’oro dello scorso anno per Sur l’Adamant, di cui questo – in Berlinale Special – è quasi il controcampo e compone insieme a un terzo, La machine à ecrire et autres sources de tracas di prossima uscita, una trilogia sulla realtà della psichiatria in Francia. Non è però un lavoro di inchiesta quello che mette in campo il regista di Essere e avere, pure se dalle voci e dalle situazioni che si alternano nelle sue immagini si comprende come i tagli alla sanità pubblica sempre più hanno prosciugato un importante sostegno alla cura. Questa narrazione rivela attraverso la parola, e nella sua relazione con l’immagine, delle esperienze che interrogano le nostre certezze, le fragilità di chiunque, le fratture del presente rendendo il confine della «malattia» molto più fluido di quanto si pensi.
Averroès & Rosa Parks è ambientato nell’ospedale Esquirol, all’interno del Polo psichiatrico Paris Centre, in passato conosciuto come l’Asilo Chareton, e il titolo viene dalle unità di psichiatria che ne sono parte. «In Francia i servizi psichiatrici sono settorializzati, ci sono diverse unità a cui si accede secondo il quartiere di residenza. I pazienti in qualche modo ‘navigano’ fra queste strutture, di giorno possono andare sull’Adamant, se hanno bisogno di consultare uno psicologo o uno psichiatra vanno al CMP (Centro Medico Psicologico). Chi vediamo nel film è ospedalizzato, alcuni di loro vi rimangono più tempo, altri anche per ragioni di disponibilità vengono indirizzati altrove». Ascoltiamo dunque le loro esperienze attraverso gli incontri con i curanti che per ciascuno cercano un gesto e un’ attenzione, che resistono all’anonimato dell’indifferenza e della fretta per prendersi cura di una comunità.

Rispetto a «Sur l’Adamant» (uscirà in Italia a marzo con I Wonder, anche distributore di questo, ndr), di cui ritroviamo alcuni protagonisti, la situazione qui appare più delicata, proprio perché le persone sono ospedalizzate. In che modo si è posto nel filmarli?

Chi è lì sta male, vive una condizione molto fragile, per questo ho voluto posizionarmi in modo semplice. Ho passato del tempo insieme a loro cercando una complicità, tutti avevano dato il consenso a essere filmati, sia i curati che i curanti durante le consultazioni. Sono rimasto sempre in quel contesto, non ho mai fatto riprese nell’ospedale, dove ci sono anche persone deliranti, che non ho filmato; volevo evitare qualsiasi banalità o stereotipo sull’argomento.

Una scena da «Averroè & Rosa Parks»

In molte delle storie che ascoltiamo al di là del malessere è come se venisse messa in discussione la realtà di oggi. In quelle angosce si amplificano le ansie di ciascuno, il lavoro, la casa, la possibilità di vivere decentemente, il desiderio di cambiare le cose – come il docente che non accetta lo svilimento del sistema scolastico. La paura della guerra, l’incertezza sul futuro.

Ma è un film che parla della violenza del mondo mettendo in luce le questioni sociali, politiche. C’è quell’uomo che si è fatto ricoverare perché non reggeva l’angoscia del conflitto in Ucraina o l’inquinamento che sentiva arrivare dai lavori nel suo palazzo; un altro che è preoccupato a condividere un appartamento ora che sta meglio perché non sa se può praticare la sua religione liberamente, riferendosi al nuovo e crescente antisemitismo in Francia. Un altro ancora vorrebbe un lavoro. Le angosce di queste persone sono condivise da tutti, in loro sono esacerbate ma appartengono al tempo presente. In questo senso si parla del nostro povero mondo al di là della psichiatria nonostante ci troviamo in quel contesto. Il dispositivo del faccia a faccia tra curati e curanti è un modo per accogliere le loro parole rendendole singolari e mostra una pratica dell’ascolto che oggi è una cosa molto rara. Così come è rara l’accoglienza della singolarità, perché si deve essere tutti un po’ nella norma, mentre qui si prova a dire che ognuno ha il diritto di essere un po’ se stesso. Per me è una scelta molto politica.

In questi scambi viene anche messa in luce la situazione di crisi del sistema sanitario.

Ma la salute così come la scuola sono totalmente state affondate in Francia. I professori sono disperati, fanno sempre più fatica a fare il loro mestiere che è poco considerato e pagato male; e così chi lavora nella sanità pubblica. Non c’è nemmeno più bisogno di sopprimere dei posti perché con tale mancanza di attrattiva ci sono sempre meno richieste. Il personale è rimpiazzato da figure di interinali, che sono pagati meglio, ma che passando da un servizio all’altro non mettono in gioco la stessa attenzione; diventano un po’ come dei sorveglianti che prescrivono medicinali. Molti passano al privato, io ammiro tantissimo chi continua nel servizio ospedaliero pubblico, i medici che nel film che fanno il massimo con ciascuno. Come dicevo ho costruito il racconto sul dispositivo degli incontri e delle riunioni fra curati e curanti. Molti dei curanti hanno preferito non apparire, alcuni erano interinali, e io stesso non volevo mostrare tutto, il mio obiettivo non era realizzare un’inchiesta.

Il montaggio, appunto. Quali equilibri ha cercato nella scelta delle immagini?

Ho montato la maggior parte degli incontri filmati tagliando quelli in cui le persone potevano essere troppo esposte. Per esempio penso a una ragazza, aveva diciotto anni, molto brillante, si è trovata all’improvviso lì: non l’ho tenuta, avrei potuto perché era d’accordo, ma ho pensato al dopo, che è una responsabilità enorme. Cosa fare dopo se lei non voleva più mostrarsi in quel passaggio della vita? Filmare significa rinchiudere qualcuno nello spazio e nel tempo in un momento preciso dell’esistenza. In un film così che immagine di loro resta? È una domanda importante. Si deve resistere al potere d’attrazione della macchina da presa. Quando sono arrivato in ospedale qualcuno mi ha detto: sono vent’anni che aspettavo una telecamera! Non l’ho filmato. Si può fare del male filmando e il nostro dovere è nuocere il meno possibile. Ma le cose sono andate in modo fluido, accadevano con semplicità; il film non vuole essere sofisticato, non ci sono effetti al di fuori della parola. In questo senso il lavoro qui è stato forse più facile che per Sur l’Adamant; quando ho deciso che era basato sulle conversazioni tra curati e curanti ho seguito questo dispositivo, filmando qualcosa che sarebbe accaduto comunque, che fa parte del quotidiano anche senza di me – tranne le variazioni che sono inevitabili davanti a un obiettivo. Potevano sempre fermarmi, dirmi di uscire, concretamente è successo una sola volta, ma sono sempre stato attento a non prendere in ostaggio le persone con la macchina da presa.

È già pronto un terzo capitolo, « La machine à ecrire et autres sources de tracas», di cosa parla? La psichiatria è un tema su cui lei è tornato più volte, da « Le moindre des choses» (1997).

Al centro di La machine à ecrire et autres sources de tracas ci sono dei curanti dell’Adamant che accompagno in alcune visite a domicilio, quattro in tutto, da persone che frequentano l’Adamant. Si tratta di curanti anche un po’ bricoleur, aiutano a risolvere dei problemi domestici – che è il motivo ricorrente di queste visite a parte per uno degli assistiti, una persona che accumula moltissimi oggetti. Di fatto è un modo per stare vicino a loro, per non farli sentire soli, in fondo può succedere a chiunque di essere disperato se si rompe qualcosa, che so, il computer. La psichiatria è un loop, non si deve credere che sono gli altri, siamo anche noi, è la nostra umanità a essere in gioco. Chi sono le persone che incontriamo in queste realtà? Sono vulnerabili, sensibili, fragili, ci pongono delle domande, ci fanno paura, ci disturbano persino forse perché ci obbligano a riflettere sui nostri limiti e a uscire dalla nostra comfort zone. È una buona ragione per filmarle.