Nicolas Mathieu, ciò che resta dei sogni nel feticcio del successo
L'intervista L’autore, già vincitore del Premio Goncourt, e che sarà oggi alle 15 all’Auditorium Santa Margherita di Venezia per il Festival Incroci di civiltà parla di «La canzone popolare» (Marsilio). «Fin dall’infanzia Hélène voleva staccarsi dal mondo dei genitori e guadagnare bene. Ma a 40 anni si chiede se il programma che ha realizzato coincide davvero con i suoi desideri». «La rabbia sociale che riempie le piazze di Francia è quella di un popolo che ha l’impressione che si governi contro di lui, a vantaggio dei più ricchi e ignorando la sua opinione»
L'intervista L’autore, già vincitore del Premio Goncourt, e che sarà oggi alle 15 all’Auditorium Santa Margherita di Venezia per il Festival Incroci di civiltà parla di «La canzone popolare» (Marsilio). «Fin dall’infanzia Hélène voleva staccarsi dal mondo dei genitori e guadagnare bene. Ma a 40 anni si chiede se il programma che ha realizzato coincide davvero con i suoi desideri». «La rabbia sociale che riempie le piazze di Francia è quella di un popolo che ha l’impressione che si governi contro di lui, a vantaggio dei più ricchi e ignorando la sua opinione»
Hélène è alla soglia dei quarant’anni, un lavoro ben pagato, due figlie, un compagno affettuoso a cui è legata da tempo. Apparentemente ha raggiunto i traguardi che si era prefissa quando, da adolescente secchiona di un piccolo centro dell’Est della Francia, aveva capito che sarebbe voluta arrivare in alto, abbandonare quella che le appariva come la mediocrità dei genitori, lo spazio angusto della provincia. Eppure, l’impiego in uno studio di consulenti che lavora con le amministrazioni locali, impegnate nella realizzazione della grande riforma che ha accorpato più dipartimenti nelle macroregioni, si rivela ogni giorno più frustrante. Per la giovane donna è il primo segnale che qualcosa comincia a non andare, ma non si tratta più del burnout che l’aveva sorpresa a Parigi con un incarico prestigioso ma troppo pesante da reggere sul piano personale, fino a costringerla a fare ritorno nella zona di Nancy. Questa volta è l’intero castello di carte costruito intorno alla sua carriera, alla sua spasmodica ricerca del successo che sembra sul punto di crollare mettendola di fronte a interrogativi ben più inquietanti di quelli con cui si deve misurare ogni giorno in ufficio tra slide e powerpoint. L’incontro con Cristophe, un amore di gioventù rimasto nella città natale dove vende cibo per cani, sembrerà aprire nuove prospettive nella sua vita. O solo costringerla a misurarsi davvero con se stessa e con i propri desideri più profondi.
Con La canzone popolare (Marsilio, traduzione di Margherita Botto, pp. 456, euro 21) che Nicolas Mathieu presenterà oggi a Venezia nell’ambito del Festival Internazionale di Letteratura «Incroci di civiltà» – alle 15 all’Auditorium Santa Margherita – lo scrittore vincitore del Premio Goncourt (con E i figli dopo di loro, Marsilio, 2019) torna ad indagare attraverso i miti e le ferite della provincia la società francese. Nato nel 1978 nella regione dei Vosgi, Mathieu dà voce questa volta alla sofferenza dei quadri, al modo in cui lo spirito e il vocabolario del management ha contaminato la sfera pubblica e le esistenze stesse, offrendo una chiave inedita e di grande interesse, sia sul piano letterario che più esplicitamente politico, per guardare alla grande crisi che sta investendo la Francia.
A fare da filo conduttore al romanzo c’è un brano di Michel Sardou, «Les Lacs Du Connemara», che sembra descrivere allo stesso tempo uno stato d’animo e una condizione sociale. Cosa rappresenta questa canzone in Francia e per lei?
Nel mio Paese è conosciuta da tutti, ciascuno di noi l’ha ascoltata almeno una volta. E ha la particolarità di essere suonata nelle feste popolari, ai matrimoni, nelle discoteche, ma anche nei circoli più esclusivi. È la canzone che chiude tutti i festeggiamenti dell’Hec, la migliore business school francese, che forma le élite economiche del Paese. Quindi rappresenta qualcosa che ci è comune, ma segnala anche l’esistenza di un confine, perché non la si ascolta allo stesso modo in questi diversi strati della società. Anche il romanzo si interessa profondamente a ciò che unisce il Paese, a cosa forma la sua base condivisa, ma che al tempo stesso può dividerlo. Tra Christophe e Hélène, nella loro storia, si gioca anche qualcosa del genere. Ai miei occhi, e per i personaggi della storia, questa canzone è soprattutto come una madeleine di Proust. Fa emergere ogni tipo di ricordi e riattiva, ogni volta che la ascolto, sensazioni e opinioni sopite. È anche una forma insieme epica e popolare: un po’ l’idea che avevo in mente per la costruzione del romanzo. Infine, inserire nel libro una canzone di Michel Sardou, disprezzato dall’intellighenzia, dopo aver vinto il Goncourt, era anche un modo per affermare un po’ provocatoriamente che questa «legittimazione» non mi ha allontanato più di tanto dalle mie basi.
Il suo orizzonte narrativo comprende sempre il mondo del lavoro. Se nei primi due romanzi si trattava della fine del lavoro operaio, in questo caso c’è l’impiego da consulente di Hélène. Cosa ci dice della società francese il ruolo assunto da questi studi privati che hanno un peso crescente nei confronti delle amministrazioni pubbliche?
Ho frequentato diversi ambienti professionali e ho visto questi studi di consulenza operare quasi ovunque vendendo dei servizi intellettuali, dal profilo spesso incerto, a peso d’oro. Anche al di là di questo aspetto, ciò che volevo affrontare era l’ideologia manageriale, il suo potere, la sua stupidità, come contamina il linguaggio e come si percepisce e si propone, vale a dire come un’expertise neutra, mentre si tratta di qualcosa di nettamente ideologico. Questo modo di pensare le cose, attraverso il prisma della performance e dell’organizzazione, ha contaminato il settore pubblico e lo stesso campo politico. E credo che l’arrivo al potere dei macronisti abbia rappresentato il trionfo di questa ideologia.
Il romanzo ci fa condividere la rabbia di Hélène, le sue frustrazioni, depressione, sconfitte. Da dove nasce il suo malessere?
Hélène è una forza in movimento. Fin dall’infanzia voleva staccarsi dal mondo dei genitori, studiare, guadagnare bene. Era ambiziosa e alla fine arriva al successo. Ma quando raggiunge i quarant’anni, si chiede se il programma che ha realizzato (un buon lavoro, la famiglia, uno stipendio alto…) coincide davvero con i suoi desideri più profondi. Se non si è fatta catturare da ambizioni che non sono le sue: una sorta di desiderio da depliant pubblicitario che il mondo dei social ha instillato in lei. Apparentemente ha tutto, ma tra sé pensa: «Questo è davvero tutto?». È attraversata da una grande sensazione di vuoto, come molte persone che appartengono alla cosiddetta «classe creativa»: chi vende per anni la propria materia grigia e finisce per mollare tutto ad un certo punto per diventare falegname o pasticcere. E poi, come donna, si è lasciata possedere da doveri che hanno il sopravvento su di lei, come quelli relativi alla famiglia che pesano su di lei molto più che sul compagno. Questa sensazione di essere stata derubata del proprio tempo, della propria vita, fuorviata nei suoi desideri, la fa arrabbiare tanto. La rabbia è un sentimento molto denigrato, una passione triste come dice Spinoza. Eppure penso che rappresenti una leva potentissima, un carburante che irriga le nostre azioni, anche se corriamo il rischio di perderci abbandonandoci ad esso. E poi, è forse la prima parola della letteratura occidentale: «Canta, o musa, l’ira di Achille» (nell’Iliade).
Le biografie che descrive indicano la difficoltà di mettere insieme la realizzazione nel lavoro, il «successo», e la felicità, il benessere emotivo. Nel libro tali elementi sembrano posti ad un bivio, ma in direzioni diverse. Come stanno le cose?
Personalmente mi pongo questa domanda: cos’è una vita di successo? Cos’è un’esistenza che vale di essere vissuta? È molto difficile rispondere. In genere cerchiamo di tenere tutto insieme: la vita professionale, quella personale, prenderci cura dei figli, esserci per coloro che ci amano, sviluppare noi stessi, soddisfare il nostro orgoglio, i nostri impulsi, amare, usare il nostro corpo finché è possibile, misurarci con i nostri limiti, con quelli che ci impongono, con il passare del tempo. Un compito che nel complesso credo sia oltre le nostre forze. Ci accontentiamo di fare del nostro meglio, e quelli che sono più propensi alla gioia sono anche quelli che hanno maggiori probabilità di essere felici.
La ricerca del successo, il crescere in provincia, l’appartenenza sociale: elementi che mettono alcuni personaggi in contraddizione con il contesto famigliare da cui provengono. Sembra molto interessato alle forme di questa «trasmissione» tra una generazione e l’altra: cosa la attrae in tale processo?
Prendere le distanze dall’ambiente d’origine rappresenta una questione scottante per me perché è un’esperienza che ho vissuto personalmente e che non smette di tormentarmi. È un tradimento di cui ci vergogniamo, il fatto di voler diventare qualcosa di più dei nostri genitori, più istruiti, più ricchi, meno sottomessi. E quella stessa vergogna suscita poi inquietudine, malessere. Perché non ci integriamo mai davvero all’ambiente a cui abbiamo puntato, mille cose ci ricordano la nostra differenza iniziale, e, in fondo, finiamo per rimanere nel mezzo. Che è al tempo stesso una difficoltà e un’opportunità: da lì, puoi vedere tutto molto bene.
È solo un sinistro rumore di fondo, ma in questa provincia un po’ annoiata, un po’ arrabbiata, toccata dalla crisi ma non messa poi così male, si profila l’ombra di Marine Le Pen. Il successo dell’estrema destra ha a che fare con gli umori di queste zone?
Ovviamente per spiegare i consensi a Le Pen ci sono la deindustrializzazione, i problemi economici e sociali, il fatto di essere crudelmente esposti agli effetti della globalizzazione, l’abbandono delle classi popolari da parte del Partito socialista, immigrazione e razzismo, e tanti altri motivi. Ma c’è anche qualcosa di più simbolico: la sensazione di essere trascurati, disprezzati da Parigi. L’impressione che a chi sta bene non importi un fico secco di chi vive qui e che continuerà allo stesso modo comunque.
Infine, una domanda obbligata: qual è rapporto tra il Paese che emerge da «Connemara» e la rabbia sociale che si esprime ora nelle piazze di Francia?
Il romanzo termina a maggio del 2017, quando Macron sale al potere. E si percepisce la tensione tra le due parti del Paese: quella delle persone con un livello di istruzione più alto o più basso, le grandi città contro quelle più piccole, chi è ben attrezzato per il mondo così com’è e chi è esposto alle sue evoluzioni più crudeli. Molti oggi hanno la sensazione di subire la legge di un’élite che calcola, gestisce, ordina, ma non si preoccupa della sorte delle persone, dei loro corpi, delle loro teste, dei loro cuori, di quanto accade nelle loro vite. Questa rabbia sociale, è quella di un popolo che ha l’impressione che si governi contro di lui, a vantaggio dei più ricchi e ignorando la sua opinione. Senza dubbio Christophe e suo padre, i suoi amici, sarebbero dalla parte dei manifestanti. Quanto a Hélène, sceglierebbe la parte del mondo in cui gravita oggi o quella del mondo da cui proviene? La domanda rimane.
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