Enrieth Martinez Palacios ha 24 anni, studia Sociologia grazie a una borsa di ricerca ed è diventata una delle leader del movimento universitario nicaraguense in seguito alle rivolte d’aprile. Ha partecipato al «Dialogo nazionale» tra il governo presieduto da Daniel Ortega e l’Alleanza civica per la democrazia e giustizia. Il tentativo di mediazione però non ha risolto la crisi dovuta alle violente repressioni sui manifestanti che chiedono da oltre due mesi le dimissioni del presidente. La incontriamo in un bar appartato e parliamo per circa un’ora della situazione del paese. Lei si guarda attorno. Vive da qualche tempo seguendo uno stretto protocollo di sicurezza, ma è piena di speranze.

Com’è organizzata la Coalizione Universitaria?
È la delegazione degli universitari che partecipa al dialogo ed è composta da cinque gruppi organizzati. Siamo studenti o persone giovani che si sono impegnate nelle proteste, che vogliono costruire insieme democrazia e giustizia. Io sono portavoce temporanea dell’Università Centroamericana e il mio compito non é solo partecipare al dialogo ma preparare la riflessione e coordinare gli studenti della mia università.

Prima del 18 di aprile molti di voi non si conoscevano. Vi state organizzando adesso?
Sì. Molti dicono che in questi giorni Ortega sta riprendendo forze ma credo piuttosto che questo sia il momento in cui i movimenti sociali si stanno ossigenando.

Il governo vi accusa di ricevere fondi dalla destra nicaraguense e dagli Usa.
Sono accuse, niente di più. Quando sono iniziate le proteste, nei giorni più crudi, si sono attivate reti di solidarietà, reti senza nome perché si trattava semplicemente di persone autorganizzate. Ad esempio io avevo un po’ di soldi risparmiati dalla mia borsa di studio ed ero in contatto con una persona che si stava muovendo per aiutare la gente che aveva subito attacchi da parte della polizia e degli squadroni di Ortega offrendo trasporto. Io avevo soldi e lei un’auto e cosí abbiamo preso a trasportare gente. Ho cominciato così. Ci sono state anche molte ong che sono riuscite a far arrivare viveri, medicine. Non sono finanziamenti, ma reti autoconvocate di persone che lavorano con la società civile e realmente ti salvano la vita.

Quindi niente manipolazioni di partiti politici interni o esterni al paese?
È difficile parlare di manipolazione. Tu stessa l’hai detto: tutto questo è nuovo, non c’è solo il movimento studentesco in gioco. Tantissime cellule si stanno organizzando e se il governo non può tagliare una testa pensando di smembrare tutto il movimento, allo stesso modo non si può dire che ci sia la destra che riesce a manipolare l’intero movimento. È come un corpo che si sta formando, affascinante e caotico.

Avete sempre detto che non vi considerate né di sinistra né di destra però dite che Ortega ha tradito il Nicaragua.
Non posso parlare per tutti i giovani che sono dentro il Movimento però posso dire che crediamo in un progetto di Paese che può trasformarsi in una proposta politica di sinistra, che parte dalla giustizia sociale, dal basso, dalle basi. Questo processo punta a una costruzione della pace senza intromissioni di partiti. C’è grande paura di cadere nel binarismo sinistra-destra perché è stato il midollo del linguaggio di Ortega. Stiamo facendo un grande sforzo per slegarci anche dal dal linguaggio che quest’uomo e il suo partito hanno stabilito. Ci sono molti tabù però c’è anche un processo di riappropriazione. Sento che la gente si riconosce con un’idea di giustizia sociale, democrazia e libertà e che sia piú portata a utilizzare questa terminologia piuttosto che le parole destra e sinistra, i cui significati sono stati catturati e cambiati negli ultimi 11 anni.

Cosa pensi della Rivoluzione popolare sandinista e di come sia terminata?
Non credo che questo sia il culmine della rivoluzione perché il processo rivoluzionario si è sviluppato dagli anni ’60 del secolo scorso fino al 1990. Da quando Ortega è diventato presidente ha creato un partito disposto a bruciare l’autonomia dei poteri dello Stato, delle regioni autonome, delle stesse comunità per stabilire un sistema gerarchico di dominio, un sistema verticale. Per me questo non è la rivoluzione popolare sandinista, non lo è mai stato..

Come immaginate che questo processo si possa sviluppare nel futuro?
L’immagine del futuro è molto legata al presente. Tutti i giorni assassinano i nostri compagni. Sento che abbiamo bisogno di organizzazioni di base per evitare i tradimenti della cupola che ha ucciso il paese. Questa è la mia speranza per il futuro: non solo democratizzazione e giustizia ma anche mobilitazione delle basi, sentire che la gente in strada, nel barrio, nelle comunità autonome possa vivere in pace.

Come vi aspetatte in questo momento dal Dialogo? Cosa non siete disposti a cedere?
In questo momento non siamo disposti ad andare al dialogo senza dialogare, che è quello che è successo nelle sessioni già realizzate. È stata una tattica per tentare di smobilitare la gente, di attaccarla e questo non lo accettiamo. Non accetteremo un’agenda che non preveda democratizzazione e giustizia: sono stati commessi crimini contro i diritti umani, contro tutta la popolazione. Qualcuno dovrà rispondere e non solo con l’esilio, deve esserci un processo giusto. Non accetteremo alternative.

Stai dicendo che deve esserci un’uscita di scena della famiglia Ortega-Murillo e degli alleati del Fronte sandinista?
Si, é corretto.

I movimenti femministi e ambientalisti già da tempo definivano Ortega «dittatore».
Io l’ho vissuto più come un governo autoritario, non sono sicura che prima dei fatti d’aprile si potesse chiamare dittatura. Credo che i segnali del movimento femminista e ambientalista siano sempre stati radicali: ne avevamo bisogno per denunciare crimini e per allertarci rispetto al fatto che il governo ci stava rubando poco a poco l’autonomia.

Il 30 maggio, durante la Marcia delle Madri, c’è stato un massacro. Perché Ortega ha agito così e perché non cede?
È difficile rispondere, sento che non è solo una questione di gioco politico, di che mossa fare sulla scacchiera. Ortega ha i mezzi per restare al potere nonostante abbia rotto tutte le sue alleanze: gli rimangono i fedelissimi, i fanatici. Il 30 di maggio è stato anche un massacro simbolico: era una carovana di lutto, che chiedeva giustizia, un momento per sentire il dolore per i morti. La sua è la tattica militare del terrore, dell’assedio totale, però la gente non ha più paura di organizzarsi e scendere in strada perché è diventata una necessità.

Si parla di rivoluzione etica, morale, civica. Come può vincere una rivoluzione senza armi?
Questa rivoluzione non ha scelto le armi perché il nostro passato è estremamente presente: la memoria della violenza e della guerra civile é forte. Adesso siamo a un punto cruciale: è evidente come l’intero apparato del governo sia fragile e per riuscire ad evitare un nuovo conflitto armato c’è bisogno della convinzione della gente e della pressione internazionale affinché il governo Ortega-Murillo lasci il potere.

Perché questa è una rivoluzione?
Avevo undici anni quando Ortega è stato eletto. La sovversione di tutto ciò che fino a questo momento si identificava con sandinismo, il riscatto della nostra storia, questo è rivoluzionario. La nostra memoria storica era stata sequestrata da un partito e il popolo improvvisamente ha detto «Basta, questa memoria non ti appartiene, la nostra resistenza non ti appartiene Daniel Ortega, é dei nicaraguensi». Anche il fatto che non siano state prese le armi è rivoluzionario perché nel nostro paese siamo abituati al conflitto armato. È rivoluzionario che questo processo sia pensato come progetto per ristabilire la democrazia e l’autonomia della gente. Se con rivoluzionario intendiamo la ristrutturazione alla radice di ciò che ha distrutto il nostro paese, allora tutto questo è rivoluzionario.

Sergio Ramirez vi ha chiamati i nipoti della rivoluzione e per età potreste esserlo. Ti senti erede della rivoluzione?
Sì, totalmente. Mi sento erede del senso di giustizia, dell’importanza del lavoro popolare e siamo anche eredi di quel riconoscimento del pericolo delle rivolte armate che non si sono mai trasformate in processi che hanno realmente aiutato la gente. Siamo eredi di una responsabilità di promesse non compiute negli anni ’80.

Stai ricevendo minacce?
Sì. So che sono in una situazione di alta vulnerabilitá però ho preso misure di sicurezza. Nel mio gruppo ci sono persone che si sono esposte più di me e corrono maggiori pericoli. Avere paura non è un segno di debolezza, ti rende cosciente del fatto che stai affrontando un assassino. Non temiamo solo per noi stessi, ma per le minacce alle nostre famiglie, per i giovani costretti ad abbandonare le proprie comunitá perché facilmente riconoscibili.

E passano alla clandestinitá?
Esattamente. Viviamo in case di sicurezza. Ma la paura è lí per allertarti, non per tenerti in gabbia.