Il commento della settimana Chiara Cruciati | L’idea di un embargo militare a Israele «perché non si può rischiare che le armi vengano utilizzate per commettere quelli che si possano configurare come crimini di guerra» ha scosso ieri la politica italiana. L’indicibile è stato detto, con coraggio, dalla segretaria Pd Elly Schlein in giorni particolari, tra l’iniziativa sudafricana che alla Corte internazionale di Giustizia accusa Israele di genocidio e incitamento al genocidio e l’ultimo messaggio alla nazione del premier israeliano Benyamin Netanyahu.
Bibi ha umiliato gli alleati, Stati uniti ed Europa, da mesi indaffarati a rianimare la già defunta soluzione a due stati, tratteggiando l’obiettivo politico che Tel Aviv intende far uscire dall’offensiva su Gaza e l’incrudimento dell’occupazione in Cisgiordania e Gerusalemme est: nessuna indipendenza statuale palestinese, «lo Stato di Israele deve controllare l’intera area dal fiume al mare».
FROM THE RIVER to the sea: lo slogan scoperto in Europa mentre rimbalzava nelle manifestazioni pro-palestinesi che chiedono cessate il fuoco e fine dell’apartheid instaurata da Israele. Tanto pericoloso da diventare oggetto di possibile criminalizzazione: da Londra a Berlino, si è discusso di punirne l’utilizzo. Lo sdegno dipende però da chi lo usa, se sta scritto sul cartello di un corteo o se gli dà voce un leader di governo come incitamento alla cacciata dei palestinesi, o quanto meno alla loro subordinazione eterna.
Dalle nostre parti è stato traslato in odio antisemita: incarnerebbe la chiamata alla distruzione di Israele e soprattutto alla cacciata degli ebrei. Sarebbe la prova che i palestinesi in Palestina, i palestinesi in diaspora e i loro sostenitori sono mossi da un antisemitismo strutturale. Lo slogan nasce prima del 1948, nella battaglia lunga decenni contro la colonizzazione della Palestina storica, e ha il suo apice nella grande rivolta palestinese del 1936-’39, che aveva come stella polare il territorio all’epoca sotto mandato britannico.
Si sviluppa dentro l’attività politica della diaspora palestinese post-1948, post-Nakba, che negli anni Cinquanta e Sessanta fonda partiti laici e socialisti (Fatah), marxisti (il Fronte popolare) e la stessa Organizzazione per la Liberazione della Palestina – tutte realtà oggi in profonda crisi dopo decenni di marginalizzazione e delegittimazione.
Il fine è il ritorno nelle proprie terre, il diritto garantito dalla risoluzione 194 del 1948 dell’Onu, inalienabile, individuale e trasmissibile alle generazioni successive e il grande rimosso da un dibattito che dimentica sette milioni di rifugiati all’estero.
Lo slogan è cuore dell’Olp dalla sua fondazione sotto la leadership di Yasser Arafat che lo ribadisce a più riprese: «Quando parliamo delle nostre speranze comuni per la Palestina di domani, includiamo nella nostra prospettiva tutti gli ebrei che scelgono di vivere con noi, qui, in pace e senza discriminazioni», disse all’Assemblea generale dell’Onu nel 1974, tra le altre. Spiegò la spinta alla creazione di uno stato di eguali a prescindere da religione o etnia, prodotto dell’influenza esercitata dentro l’Olp dal Fronte popolare, la prima forza palestinese a teorizzare lo stato unico democratico.
LA SVOLTA giunge dopo, dal 1988, e trova la sua traduzione negli accordi di Oslo: l’Olp accetta il compromesso di due stati separati (con quello di Palestina da costituire sul 20% del territorio storico) e riconosce Israele, riconoscimento mai venuto meno ma unilaterale: Israele non ha mai fatto altrettanto. Perché l’obiettivo di una sovranità dal fiume al mare è da oltre un secolo anche lo scopo che il movimento sionista si è dato e che ha vissuto un’involuzione con la salita al potere di un partito, il Likud, che ha sabotato gli accordi di Oslo e che dall’uccisione di Yitzhak Rabin (nel novembre 1995) coincide quasi ininterrottamente con la leadership di Tel Aviv.
Il manifesto del partito da due decenni guidato da Netanyahu ce l’ha nel proprio statuto: Eretz Israel corre dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. Benyamin Netanyahu, giovedì sera, non ha detto nulla di nuovo, dopotutto nel settembre scorso si era presentato all’Assemblea generale delle Nazioni unite con in mano una mappa di Israele che non prevede la Palestina, una negazione istituzionalizzata nell’assenza di confini definiti e nelle leggi fondamentali israeliane, nero su bianco dal 2018 con la legge dello Stato-nazione ebraico.
Insomma, la legittimità (o la criminalizzazione) di un’idea non dipende dall’idea ma da chi ce l’ha. Chi legge nello slogan palestinese «dal fiume al mare» la presunta e unanime intenzione di espellere la popolazione ebraica che quelle terre vive, come fosse un ineluttabile processo già in corso (mentre il rischio concreto è altrove: da mesi esponenti del governo israeliano – non manifestanti a un corteo – ripetono che l’unica soluzione possibile è l’espulsione di più palestinesi possibile dai Territori e fanno di tutto per realizzarla davvero), parte da due presupposti razzisti: che i palestinesi siano capaci solo di violenza e non di convivenza e che il diritto a esistere non vale per tutti.
QUELLO SLOGAN ha una profondità politica che ognuno è libero di giudicare come vuole: il diritto del 66% del popolo palestinese, tuttora in diaspora, di ritornare non da subordinato ma da eguale, in uno stato democratico e non suprematista che rifugge ogni razzismo, a partire dall’antisemitismo. Non significa gettare gli ebrei a mare, ma liberarsi di un regime che ritiene legittimo definire la nazionalità su base religiosa ed etnica tenendo prigionieri due popoli, non solo uno.
Il vero e più terribile rischio oggi è che si sia raggiunto su entrambi i lati un tale livello di brutalizzazione, delegittimazione dell’altro e radicalizzazione politico-religiosa – con Hamas che cresce da anni nei consensi, facendosi ogni giorno di più forza egemone, non solo militare ma sociale – che tra poco non esisterà più un terreno fertile su cui far nascere un futuro condiviso. |