«Se mi accadrà di essere io stesso l’eroe della mia vita o se questa parte verrà sostenuta da qualche altro, lo diranno queste pagine»: è il celebre incipit di David Copperfield, romanzo di formazione ottocentesco per antonomasia e l’opera più amata dallo stesso Dickens, che lo considerava «il suo figlio prediletto». Calato nello Zeitgeist vittoriano, e più precisamente all’interno dell’ethos della classe media britannica, la parabola di Copperfield, giovane brillante e di buon cuore alle prese con un’infanzia segnata da drammatici rovesci di fortuna e dai mali del suo tempo, è, almeno in superficie, una favola morale sui meriti della perseveranza e del duro lavoro. I lettori avveduti di Dickens tuttavia sanno bene come il rapporto dell’autore con l’ideologia dell’epoca sia decisamente meno diretto di come può sembrare. Attraverso l’utilizzo di un’ironia brillante al servizio della satira, Dickens sembra piuttosto polemizzare le questioni sociali a lui più care, dal lavoro minorile al sistema educativo e a quello giudiziario.

Ne è cosciente Barbara Kingsolver, per la quale David Copperfield  va letto anche come una «appassionata critica allo stato che non è in grado di provvedere ai suoi cittadini più fragili e ai dannosi effetti prodotti sull’infanzia». Scrittrice che divide i suoi interessi fra ecologismo (è laureata in biologia) e analisi sociologica, Kingsolver ha riversato il suo interesse per Dickens nel romanzo Demon Copperhead (traduzione di Laura Prandino, Neri Pozza, pp. 654, € 22,00), riscrittura sottilmente fedele e mai pedissequa del bildungsroman dickensiano, che ha vinto il Pulitzer per la narrativa e il «Women’s Prize for Fiction» l’anno successivo.

Il romanzo trasporta la difficoltosa formazione di Copperfield nell’Appalachia rurale degli anni Novanta del secolo scorso, all’alba di quella che viene oggi definita «l’epidemia degli oppioidi», ovvero  un aumento esponenziale nella prescrizione di analgesici a base oppiacea, che si è tradotta in un’esplosione della tossicodipendenza e delle relative morti per overdose.

Secondo i Centers for Disease, Control and Prevention, organo federale di controllo della sanità pubblica statunitense, dal 1999 al 2020 circa 841.000 persone sono morte per complicazioni legate all’abuso di oppioidi, e l’ultimo anno si sono aggiunte 300 persone ogni giorno. Una ecatombe scientemente programmata dalle compagnie farmaceutiche, che si concentrarono sulle aree dell’America nelle quali l’incidenza di dolori cronici era più frequente per diffondere questi farmaci che danno una rapida assuefazione pubblicizzandoli come innocui rimedi per il dolore. Persino una serie Tv di Mike Flanagan, La caduta della casa degli Usher, è stata dedicata al problema: vi si vedono i nobili decadenti del racconto di E.A. Poe diventare pescecani di big pharma le cui malefatte, indisturbate dalla legge, attirano una forza vendicatrice sovrannaturale.

Demon Copperhead invece non ha bisogno di scomodare la metafisica per ritrarre gli abissi in cui il mercato farmaceutico ha precipitato i membri più indifesi della società – qui  veri e propri damnés de la terre, inermi e sacrificati senza indugio alle dinamiche del profitto. È qui che il dubbio con il quale Dickens apre il suo capolavoro torna polemicamente a suggerire una risposta ben poco edificante. Chiamato Demon Copperhead per via dei suoi capelli color rame, il ragazzo sembra incarnare l’ideologia del self-made man: è stato certamente sfortunato, in compenso però è possesso di uno spirito pressoché inscalfibile, e comicamente sboccato con cui cerca di venire a capo delle contingenze nelle quali si è trovato. Quanto a inclinazioni e resilienza, Copperhead è un degno erede di Copperfield, ma Kingsolver spoglia immediatamente il suo eroe dell’innocenza fanciullesca che spetta, nonostante tutto, al personaggio di Dickens. La madre, tossicodipendente minorenne, lo partorisce sul pavimento della sua casa senza quasi rendersene conto. Il padre è annegato ancor prima che lui nascesse. Attorno, un mondo decaduto e popolato da hillbillies induriti dalla vita, discendenti dagli agguerriti minatori degli Appalachi,  schiacciati a forza dalle compagnie carbonifere e ridotti a scarti del processo produttivo.

È il mondo emarginato e deriso – che Alessandro Portelli racconta bene in America profonda – della cosiddetta «feccia bianca», da sempre una calamita delle antipatie highbrow, incapace di comprendere come questi vigorosi eredi della pura razza anglosassone possano essersi ridotti a bruti, per di più decisi ad autodistruggersi. Scritta a colpi di prevaricazione e lobbismo, questa storia ha trasformato l’ex paesaggio edenico dei monti meridionali in un inferno fatto di colline sventrate, case mobili da quattro soldi, spazzatura ovunque e fiumi di droga. A poco serviranno la forza e la scaltrezza di Demon contro il progetto di sfruttamento che l’America ha riservato agli Appalachi: una dopo l’altra, tutte le persone attorno a lui diventano preda della tossicodipendenza, della povertà o della disperazione.

Eppure, questa storia ironica e straziante è popolata di eroi: una di loro è June Peggott (rilettura dell’originale Daniel Peggotty), infermiera che lavora incessantemente per contrastare l’epidemia di oppiodi; un altro si chiama Mr. Armstrong (Marcus Strong in Copperfield), professore di scuola media profondamente dedito alla sua missione a fronte di una istituzione depauperata e impotente; un’altra ancora è Angus (Agnes Wickfield), strappata alla passività che spesso caratterizza le eroine dickensiane per divenire una giovane donna capace di ridare a Demon la speranza. Qualcosa di più di un adattamento brillante, obiettivo peraltro raggiunto con grande intelligenza, il romanzo di Barbara Kingsolver sembra essere anche una cautionary tale per le nuove generazioni, imponendosi al tempo stesso come una testimonianza lucida e impietosa di un’epoca i cui effetti esiziali sono ancora di là da risolversi, e un atto d’amore per i sopravvissuti (a cui il libro è dedicato) che sono stati capaci di scrivere una storia molto diversa dalla condanna che l’America più votata al profitto aveva in serbo per loro.