Buon ultimo, Barack Obama ha comunicato il suo appoggio a Kamala Harris, i cui collaboratori hanno prontamente confezionato un video della telefonata tra Barack, Michelle e Kamala. Non un grande sforzo da parte dell’ex presidente: Joe Biden aveva comunicato la sua decisione di rinunciare a un secondo mandato sei giorni fa e, nella politica americana, sei giorni sono l’equivalente di un viaggio spaziale fino ad Alpha Centauri e ritorno.

Gli endorsement servono ad allargare il consenso per un candidato: quello di Obama è arrivato quando Harris aveva già ottenuto la maggioranza dei delegati alla convenzione democratica che si aprirà il 28 agosto, quindi la sua utilità, nell’immediato, è modesta: vedremo se in settembre, quando la campagna elettorale entrerà nel vivo, avrà un qualche effetto.

La prudenza di Obama contrasta visibilmente con lo sfrenato entusiasmo mostrato nei giorni scorsi da New York Times, Washington Post, Msnbc e tutti gli altri media, piccoli e grandi, dell’area progressista americana, prontamente seguiti dai giornali italiani. Un entusiasmo che non potrà che essere deluso, sia che l’attuale vicepresidente venga sconfitta in novembre, sia che riesca nell’impresa di battere Trump ed entri in carica come presidente il 20 gennaio 2025. Kamala Harris non è Angela Davis e neppure una discepola di Martin Luther King.

Prima di tutto il curriculum di Harris, che ovviamente ha condiviso in questi tre anni e mezzo la politica di Biden, comprese le scelte su Gaza, sotto i riflettori in questi giorni per la visita di Netanyahu a Washington. Risalendo nel tempo, Harris viene presentata come un’icona progressista, una difensora dei più deboli. È vero che da procuratrice generale della California prese alcun iniziative ambientaliste, come l’opposizione alle trivellazioni petrolifere al largo della costa accettate dall’amministrazione Obama, ma la sua carriera nel sistema giudiziario, prima a San Francisco e poi nell’intera California è molto discutibile.

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Negli anni Novanta, Kamala Harris lavorava nell’ufficio del procuratore distrettuale della contea di Alameda e poi in quello del procuratore distrettuale di San Francisco. All’epoca, sosteneva la mostruosa legislazione varata nel 1994 e nota come Three strikes and you are out, che prevedeva l’ergastolo per le persone condannate per la terza volta, anche per reati non violenti come il furto. Va detto che la legge era popolare nell’opinione pubblica californiana, preoccupata per l’aumento della criminalità. E provocò un aumento del 70% della popolazione carceraria della California nel giro di pochi anni, raggiungendo la cifra di oltre 170mila detenuti a metà degli anni 2000. Non solo: nel 2004, circa settemila detenuti stavano scontando l’ergastolo in base alla legge Three strikes, che ha inoltre allungato la pena di altri 50mila detenuti.

Nel 2004 fu sottoposta a referendum un’iniziativa per emendare la legge, limitando le condanne all’ergastolo ai recidivi che commettessero un terzo reato grave e violento. Kamala Harris, da procuratore di San Francisco si oppose e la Proposition 66 fu respinta. Solo nel 2012 gli elettori californiani approvarono, attraverso la Proposition 36, una modifica della legge che ne attenuava gli effetti giuridicamente più assurdi. Di tutto questo ha scritto più volte la giurista italiana Elisabetta Grande, dell’università del Piemonte orientale.

Per tutta la sua carriera, Kamala Harris si è vantata di essere un procuratore tough, severa con i criminali, tuttavia la grande maggioranza delle vittime della politica penale californiana sono stati – e sono – gli afroamericani e gli ispanici.
Ma torniamo all’attualità e guardiamo ai sondaggi di questi giorni, tutti positivi per Harris: vari istituti la accreditano di un vantaggio su Trump del 46% contro il 44% delle intenzioni di voto.

Purtroppo l’abc della statistica ci dice che si tratta di una situazione di parità, visto che questo tipo di rilevazioni ha un margine di errore attorno al 3,5% (quindi questo stesso sondaggio potrebbe significare che Trump è in vantaggio con il 47,5% delle intenzioni di voto). Non solo: il balzo in avanti della candidata democratica riflette più la debolezza precedente di Biden che non l’effettiva forza e popolarità personale di Harris.

A questo va aggiunto il fatto, sistematicamente dimenticato dai commentatori, che diventa presidente degli Stati Uniti non chi ottiene più voti popolari ma chi costruisce una maggioranza nel collegio elettorale: nel 2016 Hillary Clinton ottenne tre milioni di voti più di Trump (48% contro 46%) ma fu quest’ultimo a vincere negli stati-chiave come Pennsylvania, Wisconsin e Michigan, raccogliendo ben 304 voti elettorali contro i 227 della candidata democratica. Piaccia o non piaccia questa è la regola del gioco e Trump conta di ripetere quest’anno il colpaccio del 2016, vincendo di nuovo nei cosiddetti swing states, dove per il momento è ancora in vantaggio, o almeno in parità, rispetto a Harris.