«Il danno ai civili palestinesi è davvero il problema in questo momento?», domandava ieri, con sorpresa, un anonimo «funzionario» israeliano, citato dai media, incaricato di esprimere il disappunto del governo Netanyahu per le ultime dichiarazioni di Kamala Harris. Giovedì la vicepresidente Usa, ormai certa candidata democratica alle presidenziali, aveva affermato, dopo l’incontro con Benyamin Netanyahu, la sua preoccupazione per la «grave crisi umanitaria» a Gaza e la necessità di «porre fine alla guerra». Parole, ha spiegato il funzionario, da respingere con forza perché, a suo dire, danneggiano le trattative per il rilascio degli ostaggi israeliani a Gaza. I giornali dicono che il primo ministro, in viaggio ufficiale negli Usa, sarebbe rimasto profondamente turbato perché la dichiarazione pubblica di Harris dopo l’incontro di giovedì è stata molto più pungente rispetto a ciò che aveva detto a porte chiuse.

Bibi ha un motivo in più per tifare per Donald Trump a novembre. L’ex presidente Usa sostiene che occorre lasciare all’esercito israeliano il tempo e il modo «di finire il lavoro a Gaza». Una posizione simile a quella che ripete da mesi Netanyahu. Harris invece chiede la cessazione dell’offensiva israeliana cominciata quasi dieci mesi fa, che ha ucciso almeno 39mila palestinesi, e causato sofferenza a Gaza, danni ai civili palestinesi e una grave crisi umanitaria. Contro di lei si è schierato subito il duo di estrema destra, i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Il primo assicura che l’attacco a Gaza non cesserà, il secondo avverte che le parole di Harris dimostrano la pericolosità dell’accordo di cessate il fuoco in discussione.

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Secondo altri esponenti della maggioranza di destra le dichiarazioni della vicepresidente Usa finiranno per spingere altri paesi alleati di Israele a adottare una linea più critica nei confronti dell’offensiva a Gaza e le azioni dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata. L’ultimo caso è l’Australia che si è unita a Unione Europea, Gran Bretagna e Canada. Una brutta sorpresa per Israele è stata anche la decisione del governo laburista britannico di Keir Starmer di non porre più obiezioni procedurali dinanzi alla Corte penale internazionale dell’Aja contro i mandati d’arresto spiccati a maggio nei confronti di Netanyahu e del ministro della Difesa Gallant (oltre che dei leader di Hamas) per crimini di guerra e crimini contro l’umanità a Gaza.

Se all’estero non ha motivo di sorridere, Netanyahu trova conforto in patria dove sta riconquistando poco alla volta il consenso degli israeliani perduto dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e il sequestro di 250 israeliani. Ieri poco prima di incontrare il suo amico Trump a Mar-a-Lago, ha appreso che un sondaggio pubblicato dal giornale Maariv mostra che l’opposizione pur restando in vantaggio ha perso slancio rispetto ai mesi scorsi e che il suo partito, il Likud, si sta rafforzando.

Il blocco dei partiti della coalizione di destra religiosa si rafforza di tre seggi e si attesta a 53 su 120, mentre l’opposizione scende a 57 seggi rispetto agli oltre 60 indicati da sondaggi precedenti. Altri 10 seggi andrebbero ai partiti arabi, sempre esclusi dal governo (con una sola eccezione) perché non sionisti. La maggioranza degli israeliani (61%) inoltre ritiene che Netanyahu negli Stati uniti abbia promosso bene gli interessi di Israele. Anche tra gli oppositori del premier di destra, il 55% ritiene che il suo discorso al Congresso sia stato positivo. Solo il 22% lo considera un insuccesso. La maggioranza dell’opinione pubblica (63%) è convinta, secondo il sondaggio, che Trump sarebbe un presidente Usa migliore per Israele. Solo il 17% pensa lo stesso di Kamala Harris.

Per il capo di stato maggiore Herzi Halevi, ieri a Khan Yunis alla guida della nuova fase dell’offensiva israeliana contro la città, «l’accordo (con Hamas) sugli ostaggi è qualcosa per cui stiamo spingendo ed è il nostro compito superiore». Non pare così per Netanyahu. Secondo fonti egiziane, palestinesi e occidentali, Israele sta cercando di modificare il piano di tregua a Gaza. Quando inizierà il cessate il fuoco, i palestinesi sfollati dovranno essere sottoposti a controlli rigidissimi uno per uno al loro ritorno nel nord di Gaza, chiede ora Netanyahu modificando così l’accordo che avrebbe dovuto consentire ai civili fuggiti al sud di tornare liberamente a casa. A confermare al giornale Haaretz quanto affermano le fonti arabe e occidentali, è un alto funzionario israeliano coinvolto nei negoziati secondo il quale la modifica imposta da Netanyahu «è un colpo mortale ai colloqui» per la tregua e lo scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi.

Nella «catastrofe totale» di Gaza, come l’ha definita ieri il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, i carri armati israeliani sono penetrati ancora più in profondità in tre cittadine a est di Khan Younis – Bani Suhaila, Al-Zanna e Al-Qarara – e nel centro di Rafah. Si sono spinti di nuovo fino a Tel Al Hawa (Gaza city). Hamas e gli alleati del Jihad islami oppongono una forte resistenza armata all’avanzata israeliana e affermano di aver causato perdite all’avversario. Numerosi morti e feriti palestinesi nelle ultime ore.