New Orleans 1960, primo giorno di scuola
Storie Ruby Bridges, la prima alunna afroamericana in una scuola fino ad allora per soli bianchi
Storie Ruby Bridges, la prima alunna afroamericana in una scuola fino ad allora per soli bianchi
Per un donna nera e di discendenza indiana che correva per la presidenza degli Stati Uniti ce ne è stata una afroamericana che è rimasta ostinatamente seduta, in autobus, rifiutandosi di lasciare il suo posto a un bianco (che lo reclamava in quanto bianco): Rosa Parks, nel 1955. E un’altra, meno conosciuta in Europa, che ha camminato, a sei anni, verso la scuola elementare fino a quel giorno (il 14 novembre del 1960) frequentata da soli bianchi.
Si tratta di Ruby Bridges, oggi, come allora, attivista per i diritti civili degli afroamericani e di ogni altra minoranza. A settant’anni appena compiuti ha pubblicato in un libro (Dear Ruby, Hear Our Hearts) le lettere che riceve soprattutto dai ragazzi delle scuole di tutti gli Stati Uniti che l’hanno ascoltata negli incontri delle sue tournée per tutto il Paese.
È un’icona, dicono e lo dice anche il suo profilo instagram; icona in Italia è definizione appiccicata, più volentieri in forma aggettivata, anche ai panini ma nel suo caso è piuttosto calzante: Ruby Bridges e la sua lotta per la disegregazione scolastica sono legate effettivamente a un’immagine, la benedetta eikon dell’etimo greco; nella fattispecie è quella del suo ritratto realizzato da Norman Rockwell attorno all’epoca dei fatti e che ci ha consegnato il fermo immagine di quella marcia determinata verso l’esercizio di un proprio diritto.
Nel quadro che la resa celebre Ruby ha i codini legati coi nastri, un abito bianco, materiale scolastico, e la scorta di quattro agenti dello United States Marshals Service.
Fu necessaria la presenza della polizia federale inviata da Eisenhower: la bambina e la sua famiglia ricevettero per mesi minacce di morte, insulti, lanci di oggetti. Non poté mangiare cibo, dentro le mura scolastiche, se non quello portato da casa per il rischio di venire avvelenata. Ruby entrò sì a scuola, la William Frantz, in quel giorno fatidico ma per un anno fu sola con l’unica insegnante che accettò di farle lezione: Barbara Henry. Il resto del corpo docente spinse il proprio boicottaggio fino a rifiutarsi non solo di insegnare all’alunna afroamericana, ma di lavorare in una scuola che la ammettesse. A lungo le famiglie fecero disertare le lezioni ai propri figli, a eccezione di un padre, il pastore metodista Lloyd Anderson Foreman, che già il secondo giorno di scuola si fece largo tra la folla per portare sua figlia Pam a lezione; in seguito si aggiunse una terza bambina, Yolanda Gabrielle. Di fatto segregate, raccontano oggi nel rendere testimonianza di quella stagione feroce, ognuna in una classe della scuola che teoricamente era in fase di integrazione. Ruby, che dapprima scambiò le grida e la folla per brandelli di Carnevale, ebbe il supporto di uno psichiatra volontario, anche la sua famiglia ricevette solidarietà e azioni di reale supporto: guardie private accanto a quelle federali, lavoro, abiti, a compensare il licenziamento del Signor Bridges, il rifiuto di alcuni negozianti di avere lui e sua moglie come clienti, l’esposizione di una bambola nera dentro una piccola bara.
Il quadro
Nel quadro di Rockwell, intitolato The problem we all live with, i volti degli agenti non sono inquadrati, la figura al centro della scena è Ruby, osservata dal punto di vista dei manifestanti ; le tre k del Ku Klux Klan, la parola nigger, un pomodoro rosso come il sangue violano il muro alle sue spalle mentre lei immacolata incede, esemplare, per sempre, piccola pulzella di New Orleans.
La tela è del 1964 ed è il manifesto della crisi nella città della Lousiana dovuta alla fortissima resistenza pubblica, non solo nella sua città più famosa, al processo di soppressione della segregazione scolastica: l’abolizione della discriminante «razziale» per l’accesso alle scuole era stato sancito nel 1954 dalla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che aveva decretato l’incostituzionalità, a partire dalla causa che oppose la famiglia Brown contro l’Ufficio Scolastico di Topeka.
Il 14 novembre 1960 fu il giorno stabilito dal giudice distrettuale James Skelly Wright per aprire le scuole dei bianchi agli afroamericani di New Orleans, la città il cui porto vide più di ogni altro in America l’arrivo di schiavi africani in un secolo (e oltre) di tratta.
L’opera di Norman Rockwell nasceva come illustrazione centrale per la rivista Look, dove l’artista aveva preso a pubblicare dopo l’interruzione della sua collaborazione leggendaria al Saturday Evening Post la rivista che lo ha reso celebre e dove per quarantasette anni ha rappresentato l’America oleografica di steccati da ridipingere come quelli di Tom Sawyer, tavole calde, guantoni da baseball, tacchini grassi e coperte patchwork; un mondo confortevole venato di nostalgia ma che nascondeva neanche tanto in filigrana una spinta ribalda di denuncia sociale. Un’energia che stava stretta nei limiti tematici impostI dal magazine e trovò campo libero nelle pagine fotogiornalistiche di Look: lì pubblicò nel 1965 anche Southern Justice, che rappresenta la morte (avvenuta per mano di membri del KKK) degli attivisti per i diritti civili James Earl Chaney, Andrew Goodman e Michael Henry Schwerner, e New Kids in the Neighborhood del 1967, sul tema dell’integrazione razziale che può passare dai ragazzini eludendo i pregiudizi degli adulti.
La protagonista
Di questo è convinta anche Ruby Bridges che oggi, a capo della Fondazione che porta il suo nome, si rivolge principalmente agli studenti e ribadisce che i più giovani sanno scegliere spontaneamente l’integrazione e riconoscere l’altro come compagno di giochi, di studio.
Dopo un anno di scuola- in cui Ruby credette a lungo di essere l’unica alunna nell’edificio lei e gli altri studenti afroamericano del programma di integrazione che andarono a frequentare scuole di bianchi , vennero di fatto dimenticati, l’anno scolastico 1961/62 cominciò e in classe c’era anche Ruby, non più sola; conseguì la licenza elementare, poi il diploma.
La violenza che si era manifestata per centinaia di giorni in qualche modo evaporò e anche se le cose cambiate è ancora un fiume carsico che provò periodicamente ad affiorare. Che ferite abbia lasciato lo sanno Ruby Bridges, la sua famiglia che pure si offrì volontaria per partecipare con la figlia al programma per la disegregazione promosso dalla National Association for the Advancement of Colored People.
Nel 2015 Barack Obama ha ricevuto Ruby alla Casa Bianca; il quadro di Rockwell che la ritrae era appeso in una stanza poco distante dalla Sala Ovale, in occasione di una mostra temporanea organizzata in collaborazione col Norman Rockwell Museum «senza di voi ragazzi, io non sarei qui» fu il commento dell’allora Presidente degli States.
A partire dall’iniziativa di un gruppo di alunni di quinta elementare di una scuola di San Francisco nel maggio del 2018, il 14 novembre è stato istituito il Ruby Bridges Walk to School Day (approvato nel settembre del 2021 con risoluzione del Senato dello Stato di California) cui aderiscono scuole di tutti gli USA per sensibilizzare le comunità sui temi di razzismo, bullismo e ogni forma di segregazione.
Alla vicenda della bambina di New Orleans ha dedicato pagine preziose e molto forti un testimone anomalo quanto formidabile: John Steinbeck nel suo libro Viaggi con Charley cronaca di peregrinazioni americane del Nobel per la letteratura che a cinquantotto anni decise di mettersi a girare il suo Paese («più che altro per informare me stesso») a bordo del furgone chiamato Ronzinante come il cavallo di Don Chisciotte e di Charley, un barboncino francese.
Come Rockwell, lo scrittore nel suo diario mostra la scena ma non dice le parole ingiuriose, disgustose rivolte a Ruby dalle cheerleader, le «mamme» bianche che attesero per mesi la bambina all’ingresso e all’uscita di scuola, non vuole riportare gli insulti. Descrive il livore, della folla smaniosa di linciaggio, gli orecchini d’oro finto, l’ombretto sugli occhi.
«Ho visto gente simile mugghiare chiedendo sangue agli incontri di pugilato, avere un orgasmo quando un uomo resta incornato da un toro, fissare con gioia trasposta un incidente stradale, far pazientemente la fila per assistere a una pena, a un dolore.
Ma dov’erano gli altri? Non so dove fossero. Forse si sentivano inermi come me eppure lasciavano New Orleans esposta al mondo in un’immagine falsa. La folla senza dubbio corse a casa per rivedersi in tv e quel che vide la folla lo vide tutto il mondo senza che a tutto questo si opponessero altre cose che, io lo so, ci sono.(….)
Anche solo scrivere queste cose ha risuscitato in me una stanca, disperata nausea. J.S.»
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