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Néo-Romantíques, farfalle nella tempesta

Néo-Romantíques, farfalle nella tempestaPavel Tchelitchew, «Blue Garçon avec une ficelle», 1927

Arte francese 1926-1972 Léonide e Eugène Berman, Tchelitchew, Bérard... Patrick Mauriès riesuma, per Gallimard, una corrente laterale fatta di coltivata bizzarria

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 6 novembre 2022

La storia dell’arte, al pari di tutte le storie, può immaginarsi come una linea retta che ne congiunga le varie tappe salienti, una volta che la meditazione critica abbia distinto l’eterno dall’effimero, e lasciato il secondo alla spigolatura paziente di qualche studioso o erudito. Ma agli spiriti curiosi, come Patrick Mauriès, autore di un libro sopraffino, Les Néo-Romantíques Un moment oublié de l’art moderne 1926-1972 (Gallimard, pp. 256, euro 39,90), codesto atteggiamento, se non spiacere, deve perlomeno annoiare per la monotonia della veduta. Essi preferiranno piuttosto immaginarsela come una retta spezzata in molteplici curve e arricciamenti, simile a quella che Laurence Sterne tracciava a un certo punto del Tristram Shandy per spiegare l’andamento del racconto. Solo allora il panorama si farà mosso e interessante. Qualcuno potrà dire che tanti ricercatori nelle nostre università fanno la stessa cosa, andando alla questua di figure secondarie a cui dedicare studi doviziosi. Ma si provi a interrogarli sul reale valore di quelle figure, vi risponderanno semplicemente che si tratta degli affluenti d’un grande fiume maggiore, scorrente per placide terre delle quali nessuno si sognerebbe di ridisegnare la morfologia. O al più che l’intera mappa è sbagliata e che a quelle vie consolari ne vanno sostituite altre.

Ben diverso è invece l’approccio di Mauriès. Ai suoi occhi l’arte moderna somiglia piuttosto a quella Carte du tendre immaginata da Madame de Scudéry, coi suoi mille variabili sentieri; e proprio nel fatto che la pittura neo-romantica sia stata invece riguardata sotto l’aspetto teleologico d’un vicolo cieco nella grande strada maestra del modernismo, e non in guisa d’una fra le tante vie di un intricato groviglio, risiede, sostiene l’autore, la ragione del suo discredito.

All’interno di quell’articolato processo verso l’astrazione e la decostruzione della forma, la corrente neo-romantica non costituì infatti nemmeno un episodio dialettico. Pittori d’indole umbratile, tanto Berman quanto Tchelitchew e Bérard, non vollero contrastare gli altri movimenti in quella sistole e diastole fra tradizione e avanguardia che caratterizzò il secolo, contentandosi d’elaborare un loro personalissimo linguaggio, screziato d’influenze molteplici e ricordi d’antichi maestri. Sicché, ancora negli anni in cui il loro nome s’andava spengendo, essi ricusavano di prendere parte alla lotta fra i vari orientamenti estetici, paghi d’essere ricercati da pochi, selezionati collezionisti, e dell’ammirazione professata per loro da galleristi raffinati come Irene Brin e Gaspero del Corso. Sdegno aristocratico o perpetua adolescenza, indifferente alla lotta, del genere che traspira da certe pagine di Louise de Vilmorin?

Questo gruppo di pittori, che si è soliti ricordare col nome di neo-romantici – nei quali, però, la mescolanza d’elementi emotivi e sensuali da un lato ed eruditi e astratti dall’altro porterebbe piuttosto a parlare, come suggerisce Mauriès, di neo-manierismo –, s’era costituito intorno all’Académie Ranson e aveva esposto per la prima volta insieme nel 1926 alla Galleria Druet di Parigi: erano i due fratelli Berman – Léonide pittore di marine, «fasciné par la tipographie singulière de certains littoraux, il joue en particulière avec la perspective déformée des moulières, bordigues et marais salants» – ed Eugène, autore d’architetture fantastiche dalle prospettive distorte; Pavel Tchelitchew, coi suoi corpi moltiplicati e distorti, come in molteplici giochi di specchi; Christian Bérard, pittore d’ambigui ritratti come velati d’opacità irreale; Kristians Tonny e Thérèse Debains.

La maggior parte di loro aveva seguito i corsi di Denis, Sérusier, Vuillard e Vallotton e ammirava l’arte di Derain e Picasso (sebbene la loro considerazione per l’autore di Guernica si limitasse al periodo rosa e alle scenografie per i balletti di Diaghilev); la pasta dei loro dipinti era invece spessa, carica d’ombre, tanto da ricordare alla lontana De Chirico e, attraverso di lui, Böcklin.

La definizione di neo-romantici potrebbe portare a fraintendere la loro pittura, mischiandovi un non so che di primitivo e d’autodidatta; in verità, d’ottocentesco essi non avevano che il ritorno alla figura umana e l’accento posto sull’elemento lirico del quadro, ma la forma era mediata dalla citazione diretta dell’arte antica, ch’essi impiegavano come un repertorio di forme da rielaborare alla maniera musicale di immaginifici capricci. Tchelitchew, nello studio per The One who Fell, ricalca il Cristo morto del Mantegna, nel ritratto di Edith Sitwell quelli di Van Eyck, mentre in altre sue cose si vedono ripresi ora gli studi anatomici di Gautier d’Agoty, ora gli uomini cubici di Cambiaso; Eugène Berman s’ispira alla pittura seicentesca su pietra, ai cartigli, alle prospettive del Bibbiena e ai quadraturisti; Bérard, invece, a Raffaello e ai maestri del Cinquecento.

Eugène Berman, «Nike», 1943

Mauriès sottolinea l’importanza ch’ebbe il viaggio in Italia per questi artisti, in gran parte aristocratici russi in esilio con alle spalle un mondo in rovina. L’impressione che dovettero trarre della tradizione classica era straniata, simile per certi versi a quella trasmessa dalle acqueforti del Piranesi. Anche il neoclassicismo, d’altra parte, era nato dal sogno d’artisti nordici, come Winckelmann o Keats, intorno a un mondo abolito, dal quale erano irrimediabilmente distanti. Le prospettive bizzarre, i colli allungati alla Parmigianino, le anatomie leonardesche, le reminiscenze palladiane, i trompe-l’oeil, tutti i ricordi del passato, assumono nei loro lavori un che di malinconico e scenografico insieme, come di teatrale impotenza. Aspetto quest’ultimo che non mancò d’essere notato da Gertrude Stein che, nella sua Autobiografia di Alice B. Toklas, descrive appunto Bérard e i suoi compagni come spiriti sterili, incapaci di porsi nel grande corso della storia; e in uno stesso spazio di un’ arte minore ed effimera li collocò anche Greenberg per il quale l’opera di Berman non era che uno splendido scialo di dono nativi.

In effetti, tutti questi artisti nella seconda parte della loro carriera si dedicarono alla scenografia, al teatro e alla moda, ignorando con signorile sprezzatura il destino dei loro disegni, come quei tanti musicisti napoletani del Settecento i cui spartiti finivano nei magazzini dei teatri, senza che alcuno – e loro benché meno – se ne occupasse più. Per Mauriès la loro opera somigliò a quella di un Saint-Aubin o di un Costantin Guys, egualmente composta di perituro e d’eterno, d’eleganza e di facilità d’esecuzione; ma, sotto questo aspetto, la pittura neo-romantica potrebbe richiamare alla mente altrettanto bene quei virtuosi del genere di Paganini che preferivano l’improvvisazione alla lenta elaborazione teorica d’una costruita scienza, o ancora gli attori della Commedia dell’arte, avvezzi a recitare su un canovaccio appena abborracciato, fidando nel loro estro che, di volta in volta, avrebbe colmato gli spazi bianchi. E forse non è un caso che fra i soggetti favoriti da questi artisti vi fossero pagliacci, acrobati e ballerine, tutto un ricco corteo da théâtre forain, insomma.

Exegi monumentum aere perennius, recitava il verso antico. Ma sotto l’Arco di Tito vi sono anche magnifiche farfalle, le cui ali sfavillano d’accordi splendidi e momentanei. «Le farfalle servono a ornare il mondo e a dilettare gli occhi degli uomini», scrisse una volta Edith Sitwell, una delle loro più appassionate collezioniste. Chi può incolparci se riposiamo con gratitudine il nostro sguardo su questi fuggevoli doni, prima di riprendere il cammino?

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