Dalla Manhattan dei royal Tannenbaum, alla Mitteleuropa di The Grand Budapest Hotel, all’ India di The Darjeeling Limited (Il treno per Darjeeling) alla Parigi del più recente The French Dispatch, il luogo è sempre il punto di partenza chiave da cui Wes Anderson inizia l’elaborazione dei suoi mondi. Ogni film un universo che lui sviluppa progressivamente, di dettaglio in dettaglio, con la meticolosa ossessessività di un puzzle. La luce «né calda né fredda, ma bianca» come dice la voce fuori campo all’inizio, è uno dei protagonisti principali di Asteroid City, l’ultimo film del regista americano, presentato ieri in concorso. Il suo luogo – a cui si arriva dopo un prologo in bianco e nero che ci annuncia che siamo all’interno di una messa in scena teatrale (Edward Norton è il drammaturgo, Adrian Brody il regista) è un deserto del South West, che ricorda la fantascienza di Jack Arnold, anche perché il film è ambientato nel 1955 . Poco più di un crocevia di piccoli edifici bianchi sul bordo di una stazione del treno, nel mezzo di un’interminabile distesa piatta color sabbia, sovrastata da un cielo turchino, Asteroid City è cresciuta sull’orlo del vasto cratere provocato da una piccola meteorite nera.Una convention nell’immaginaria città interrotta dalla visita di un’astronave aliena

È LÌ CHE OGNI ANNO si riuniscono, in celebrazione dell’anniversario, amanti dell’astronomia, aspiranti viaggiatori dello spazio, cultori degli Ufo e sognatori di vario tipo. È lì che si rompe l’automobile di un vedovo (Jason Schwartzman) che non ha ancora osato dire ai suoi quattro adorabili bambini che hanno perso la mamma. Dalla California, il nonno (Tom Hanks) parte per andare a recuperarli. Confluiscono ad Asteroid City anche i concorrenti dell’annuale Stargazer Convention, giovani aspiranti scienziati, forse già in contatto con gli Ufo, e si ferma al diner locale anche la famosa attrice Midge Campbell (Scarlet Johansson) immediatamente avvistata dalla colorista del posto (Hope Davis).

La redazione consiglia:
Wes Anderson, tutti i colori della nostalgiaTUTTO A UN TRATTO, in vista di un ipotetico attacco extraterrestre, il governo mette Asteroid City in quarantena totale. Tutti rimangono bloccati lì. Anderson compone e scompone i personaggi e le loro interazioni come cubi di costruzioni sulla distesa piatta. L’attrice pare innamorarsi del vedovo triste che è anche un fotografo amatore. Le angeliche bambine battezzate con nomi da muse greche sono convinte di essere delle streghe. Matt Dillon è il meccanico, Maya Hawke la maestra, Tilda Swinton la scienziata. In un concorso cannese pieno di film ipercontrollati – dalla scrittura, dal concept, o dall’ideologia – al punto di essere soffocanti, il controllo formale ossessivo di Anderson mantiene sempre, al suo cuore, la possibilità dell’anarchia.

È QUELLA la scintilla che – alcuni più alcuni meno, e questo forse è uno di quelli – accende di calore i suoi film e che gli ha procurato un seguito enorme di fan, non solo negli Usa. Prevedibilmente, l’arrivo alieno nel deserto che circonda Asteroid City non ha gli effetti distruttivi dei marziani di Tim Burton o l’elemento trascendente degli incontri ravvicinati di Spielberg. Ma la scena (che poi sono due), la più bella del film, ha un suo messaggio preciso, e dolcemente sovversivo.