Nell’ottavo round tra Londra e Bruxelles torna l’incubo «no deal»
Brexit Il negoziato riparte in salita, ma il tempo stringe. Il periodo di transizione finisce a dicembre e un eventuale accordo commerciale deve essere raggiunto entro ottobre. Il governo britannico ammette: la revisione dell’accordo viola il diritto internazionale
Brexit Il negoziato riparte in salita, ma il tempo stringe. Il periodo di transizione finisce a dicembre e un eventuale accordo commerciale deve essere raggiunto entro ottobre. Il governo britannico ammette: la revisione dell’accordo viola il diritto internazionale
Mentre si è aperto ieri l’ottavo round di negoziati tra la Ue e la Gran Bretagna in vista della Brexit, il sottosegretario per l’Irlanda del Nord del governo di Londra, Brendon Lewis, ha ammesso che la revisione del Withdrawal Agreement Bill raggiunto nel 2019 «viola il diritto internazionale», come hanno sottolineato lunedì sia il negoziatore Ue, Michel Barnier che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Ma per Lewis la violazione sarebbe solo «molto specifica e limitata»: oggi, il governo britannico dovrebbe comunicare le sue intenzioni con maggiore precisione sulle nuove proposte per il protocollo sulle dogane, dopo che un’organizzata fuga di notizie sulla stampa inglese ha sollevato un polverone, a Bruxelles ma anche a Londra. Il Dup, partito nord-irlandese alleato dei Tories, è d’accordo su queste modifiche (era stato contrario all’accordo di divorzio).
PACTA SUNT SERVANDA, dice Bruxelles, gli accordi passati, già con grande difficoltà, sulla situazione dell’Irlanda del Nord per evitare una frontiera fisica all’interno dell’isola (tra l’Irlanda del Nord britannica e l’Eire), non si toccano, «tutto ciò che è firmato deve essere rispettato». A Londra l’idea della revisione dell’accordo di divorzio ha lasciato perplessi anche esponenti del partito Tory. L’ex prima ministra, Theresa May, si allarma sul futuro della credibilità di Londra per i prossimi accordi internazionali. Nicola Sturgeon, prima ministra scozzese, è più diretta: a Londra «sono dei ciarlatani». Ieri in dissenso con Johnson si è anche dimesso il capo del dipartimento legale del governo britannico, Jonathan Jones.
Il tempo stringe e il braccio di ferro è al massimo. Il periodo di transizione prima dell’uscita definitiva della Gran Bretagna dalla Ue finisce a dicembre, ma nei fatti un eventuale accordo commerciale deve essere raggiunto entro ottobre, per lasciare tempo ai voti parlamentari (per la Ue dovrebbe essere solo l’Europarlamento).
Il premier Boris Johnson, che è in difficoltà (ha perso 26 punti nei sondaggi) ha messo una nuova data-limite: entro il 15 ottobre, in occasione del prossimo Consiglio europeo, deve esserci un accordo, in caso contrario si andrà verso un no deal, cioè le relazioni commerciali tra Gran Bretagna e Ue saranno regolate dalle regole della Wto, con tariffe doganali elevate. Il negoziatore britannico, David Frost, via stampa, ha già fatto la voce grossa: la Gran Bretagna non sarà «un vassallo della Ue», gli europei devono accettare che Londra sia uno stato sovrano. Barnier ribatte: «Non ci sarà nessun accordo a detrimento della Ue e del mercato unico». Un Consiglio straordinario sulla Brexit potrebbe aver luogo a fine ottobre.
I DUE PRINCIPALI SCOGLI del momento sono ancora la pesca (un’intesa sarebbe dovuta intervenire già a giugno, per spianare la strada all’accordo più generale) e oggi, più in particolare, gli aiuti di stato. La Ue teme che la Gran Bretagna faccia dumping, «dopo la Brexit avremo un concorrente alle nostre porte» aveva avvertito Angela Merkel. Sulla carta la Ue è in posizione di forza: gli scambi Ue-Gran Bretagna (valgono mille miliardi di euro) sono squilibrati, il 47% delle esportazioni britanniche vanno verso la Ue mentre l’export Ue verso Londra è dell’8%. La pesca è invece un caso particolare: gli europei (11 paesi sono interessati) hanno 5 volte più battelli che pescano nelle acque territoriali britanniche di quanto siano i battelli britannici nelle acque Ue. Per la Francia, la pesca nelle acque inglesi equivale al 30% del totale, per il Belgio addirittura il 50%. Ma i pescatori britannici, che hanno votato Brexit in massa, esportano nella Ue il 70% di quello che pescano. Senza accordo distruggerebbero un mercato. Londra vorrebbe però raddoppiare la propria quota, a scapito degli europei.
MENTRE IL CAOS della Brexit continua, mentre preme la messa in atto del Recovery Fund, la Commissione si è dovuta occupare delle conseguenze del Golf-gate con le dimissioni del commissario irlandese Phil Hogan. Il dimissionario sarà sostituito al Commercio – posto importante – dal lettone Valdis Dombrovskis, che lascia i Servizi finanziari, a cui andrà l’irlandese Mairead McGuiness. Un gioco di sedie, che serve alla Commissione per riequilibrare a favore delle donne e per imporre la propria indipendenza dagli stati (Hogan si è dimesso su pressione di Dublino).
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