Visioni

Nell’incubo della pandemia, il potere sulla memoria delle immagini

Una scena da «An Unfinished film»Una scena da «An Unfinished film»

Cannes 77 Presentato nella sezione Seances Speciales «An unfinished film» di Lou Ye

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 24 maggio 2024

Il punto di partenza è un film «maledetto» di dieci anni prima rimasto incompiuto negli hard disk del vecchio computer, una storia d’amore a tre che il regista Xiaorui vorrebbe finalmente chiudere. Per questo chiama il suo attore (Jian Cheng) che intanto è diventato famoso passando probabilmente a un cinema più mainstream, e gli chiede di dargli questa possibilità. Tentennamenti a causa dell’agenda famigliare e del set e infine accetta: gireranno prima del Capodanno cinese, fra il dicembre del 2019 e il gennaio del 2020. Nell’hotel vicino a Wuhan dove la troupe risiede sono in molti a portare le mascherine, la notizia di un’epidemia mortale circola già e ben presto la tv manda le immagini di Wuhan in stato d’assedio: nessuno può, uscire nessuno può entrare, ovunque la luce livida della polizia e delle ambulanze. An Unfinished Film (nelle Seances Speciales) è firmato da Lou Ye, regista spesso in collisione con la censura del regime cinese per i suoi film che toccano temi tabù come la repressione nell’89 a Piazza Tien An Men e la fine di una generazione – Summer Palace; Suzhou River.

SI PARLA del Covid , dunque, anche questo un soggetto ancora a rischio, e nel momento iniziale di massimo oscuramento in Cina – ricordiamo il medico che cercò di lanciare l’allarme, del quale si vede qui il video, o i tanti altri che sono stati condannati a diversi anni di prigione per avere rotto il silenzio – mostrando come la prevenzione del contagio si è da subito trasformata in un violento strumento repressivo.

LA LENTE di osservazione è la troupe confinata – qualcuno di loro ha contratto il virus – con metodi bruschi nell’albergo da dove il solo mezzo per comunicare sono le videochiamate mentre l’esterno è filtrato nei frammenti «rubati» alle finestre – come sarà nel tempo a venire. L’attore è in costante contatto con la moglie sola a casa insieme alla loro figlia piccola a Pechino, il regista si è ammalato, la polizia non permette neppure di uscire dalla stanza. Lou Ye utilizza diversi registri e materiali, nel personaggio del regista è esplicito il rimando a sé stesso suoi sono gli «archivi» di film del passato nelle sequenze iniziali mischiati a un found footage di video presi in rete – un po’ come ha fatto in altri suoi film. E la distanza narrativa del personaggio gli permette di mantenere una prospettiva più fluida, di muoversi con maggiore libertà dando anche a immagini note, come appunto quelle della pandemia, un nuovo significato, una diversa forza, grazie al dialogo con l’esperienza personale del vissuto di ciascuno dei personaggi.

C’è il desiderio di una riflessione sulla memoria delle immagini e e sul loro potere nel tempo rispetto a un trauma collettivo, che torna nei film cinesi visti a Cannes – pensiamo al magnifico Caught by the Tides di Jia Zhang -ke, che si conclude nel post pandemia. Non si tratta semplicemente di una «denuncia» sull’urgenza della cronaca ma di un qualcosa di più sfumato: una forma di resistenza alla rimozione affermata con la ripresa rapida della «normalità» rispetto alla quale la presa di parola sulle fratture e sui silenzi diviene un passaggio della storia. Di ieri e nel futuro.

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