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Nelle retrovie, i feriti della battaglia per Bakhmut

Nelle retrovie, i feriti della battaglia per BakhmutSoldati ucraini a Bakhmut – Alfredo Bosco

Il limite ignoto Fra le corsie dell’ospedale di Chasiv Yar, dove pochi medici fanno quello che possono. In sottofondo i rumori incessanti della guerra

Pubblicato più di un anno faEdizione del 12 febbraio 2023

«Desolée», dice in un francese stentato un soldato ucraino al posto di blocco. Oggi non si passa per Bakhmut, ordini dall’alto. Gli scontri in città continuano ad alta intensità, c’è chi pensa che possa cadere da un giorno all’altro, ma gli ucraini assicurano di no. Almeno per ora.
Il breve tratto di campagna che si è costretti a percorrere è battuto solo da mezzi militari ufficiali e di fortuna. La strada diretta che scendeva da Druzhivka e Kostantinivka è praticamente chiusa oltre una certa altezza. «Troppo pericolosa» spiegano dei militari in pausa, il rischio di trovarsi sotto il fuoco russo è alto in quanto «i nemici vogliono controllarne il tratto finale per impedirci di portare rifornimenti». I camion che trasportano le truppe cercano di muoversi il meno possibile di giorno, nonostante gli alberi in alcuni tratti la visuale è libera e non ci si può permettere di rischiare un intero reparto.

I CARRI ARMATI, perlopiù T-85 di costruzione sovietica, irrompono dalle svolte sterrate per percorrere brevi tratti a tutta velocità e poi sparire in qualche vicolo laterale. È fondamentale spostarsi subito dopo aver risposto al fuoco in modo da non essere individuabili dagli artiglieri nemici. Per i fanti si prediligono le automobili. I più fortunati si spostano in potenti 4×4 ridipinti alla meglio e con i vetri coperti. Gli altri, la maggior parte, in vecchie Lada che stentano sotto il peso degli uomini e del loro equipaggiamento. L’aria trema in continuazione e i colpi dell’artiglieria rimbombano tutto intorno. Mentre insistiamo con il militare di guardia per proseguire verso Bakhmut, un obice spara dal fianco della collina a poche decine di metri da noi. Il soldato digrigna i denti e scuote il capo nuovamente.

Un pick-up militare corre nella direzione opposta con il telo di cerata verde sollevato, si vedono dei corpi e un uomo intento su di loro, probabilmente un paramedico. La seguiamo fino alla vicina Chasiv Yar, che è completamente bianca e ghiacciata per terra. Il 4×4 dell’esercito sbanda leggermente mentre imbocca un viale di quello che ha tutta l’aria di un ex ospedale civile. Nel piazzale a parte il bianco della neve solo qualche barella appoggiata ai muri in diagonale, una vecchia ambulanza militare nascosta sotto una tettoia e degli indumenti mimetici sparsi. Escono dei soldati da una porta chiusa e aiutano il conducente a caricare i corpi sulle barelle, poi tutti spariscono in fretta nell’edificio.

DENTRO si è al buio, le finestre sono sprangate o coperte da assi di legno e filtrano solo pochi raggi di luce. Fa freddissimo e da lontano, come ovattato, si senteun borbottio. Alla fine di un corridoio, buio anch’esso, dietro un telo di plastica, i medici militari ucraini hanno approntato una specie di pronto soccorso. Il paradosso è che nonostante l’aspetto scalcagnato del luogo e l’impossibilità di renderlo asettico, qui vengono trattati sia i feriti più blandi che i casi disperati, quelli che non arriverebbero oltre vivi.

IL SOLDATO che si incarica di parlare con noi è un bonario cinquantenne brizzolato che si dice molto preoccupato per le sorti di Bakhmut. «Non c’è un numero costante di feriti che arriva qui, dipende» spiega. Chiediamo se i combattimenti si stanno facendo particolarmente duri. «Stanno provando in tutti i modi a cacciarci da lì, con ogni pezzo d’artiglieria disponibile, ci manca solo che ci tirino le pietre». Ma è vero che alcuni reparti ucraini si stanno già ritirando? Stava per spiegare che si tratta di informazioni riservate ma poi viene richiamato dalla sala ed entriamo con lui. A un ragazzo steso prono stanno iniettando qualcosa, forse un anestetico, mentre un medico (probabilmente si tratta di un medico) è alle prese con delle brutte ferite che assomigliano più a dei buchi sul suo polpaccio. «Mi hanno sparato» spiega il ragazzo, ancora cosciente. L’altro è messo peggio ma non è in fin di vita, perde sangue e ha un braccio rotto. In volto è bianco e le labbra gli si sono talmente asciugate da farlo sembrare una statua di cera.

PER TERRA ci sono confezioni di siringhe, garze, scatole e attrezzi vari; i vestiti insanguinati dei soldati sono vicino alle barelle. Il ragazzo fa un cenno e un militare fruga nella giacca in terra e poi deposita di fianco al ragazzo un paio di cuffiette per il telefono, calzini pesanti ancora con l’etichetta e qualche spiccio. Finite le operazioni i due feriti vengono coperti con due teli termici di quelli catarifrangenti; il più anziano, quello con il braccio rotto, inizia a battere i denti.

PER TUTTA LA MATTINATA i boati non cessano e la battaglia continua a infuriare a Bakhmut, diverse altre ambulanze sfrecciano sulla strada ghiacciata, ma sono dirette altrove, verso l’ospedale di Kramatorsk o ancora più a ovest. Qui a Chasiv Yar si fa il possibile per evitare amputazioni e per stabilizzare i feriti più gravi, sembra di essere più una bottega clandestina. Dell’ospedale è rimasto solo l’edificio, per il resto quei 6 medici fanno quel che possono, ma è una lotta impari. Mentre usciamo sentiamo le voci che chiamano il ferito più anziano, «Dima! Dima!». Poi qualcuno fa una battuta, Dima si è svegliato, ridono tutti.

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