Nelle campagne cinesi, in viaggio con Slow Food
Chengdu Il reportage di un’inviata molto speciale dalle terre di Deng. Tra incontri con i leader comunisti e contadini che sposano la filosofia della lentezza culinaria. Quando la Cina è vicina
Chengdu Il reportage di un’inviata molto speciale dalle terre di Deng. Tra incontri con i leader comunisti e contadini che sposano la filosofia della lentezza culinaria. Quando la Cina è vicina
Chengdu, oltreché la patria di Deng Tsiao Ping, è la patria del panda; e infatti l’immagine dell’animaletto peloso di cui abbiamo temuto l’estinzione decora ogni angolo della città. Che ne ha preservati gli ultimi esemplari e si è impegnata a creare le condizioni affinché la specie tornasse a riprodursi. Proprio quest’anno è stato finalmente annunciato che l’obiettivo è stato raggiunto: i panda continueranno a essere nostri conviventi.
Non è il solo successo di questa città della provincia occidentale cinese,16 milioni di abitanti nella sua area metropolitana, una crescita della popolazione di 500 mila esseri umani all’anno. L’elenco dei suoi record non finisce mai: qui sono presenti 300 delle 500 più importanti aziende straniere operanti in Cina e perciò è al terzo posto per presenza di consolati; c’è il maggior numero di caffè Starbucks della Cina occidentale e anche di volontari; è l’area urbana più sicura del paese; è quella più pulita (e infatti ogni strada è sempre affollata di anziani vestiti di arancione che spazzano e lucidano come si trattasse dell’interno di un appartamento).
Inoltre ci sono 59 Collegi Universitari, 30 istituti di ricerca e la costruzione monoblocco più grande del mondo. Non cito il numero dei grattacieli perché sono troppi per contarli. Posso solo dire che l’effetto ottico è una Manhattan moltiplicata per quattro: una inimmaginabile quantità di banche, assicurazioni, shopping center, alberghi di lusso, il gotha della moda internazionale; e poi musei, biblioteche, fuori dal centro chilometri e chilometri di abitazioni tutte spericolatamente verticali.
Fino a 25 anni fa Chengdu era un povero centro agricolo. Anzi: la «pancia agricola» del paese. Oggi la campagna sembra dimenticata.
[do action=”citazione”]25 anni fa era la pancia agricola della Cina, oggi Chengdu ha sedici milioni di abitanti, sembra una Manhattan al cubo[/do]
Non è il solo caso in Cina. Ma Chengdu ha un’altra specialità: è anche capitale gastronomica riconosciuta dall’Unesco, per la varietà dei suoi prodotti alimentari che hanno resistito per via del rispetto di cui godono. Forse per questo è la prima che ha cominciato a chiedersi se andando avanti così fra un po’ ci sarà ancora da mangiare per tutti. Se ci sarà cibo, cioè, degno di questo nome, non solo quello distribuito dai colossi agroalimentari che hanno invaso le mense cinesi. Che – per dirla come recita Slow Food – non è né buono, né pulito, né giusto.
L’interrogativo è stato espresso esplicitamente dal professor Wen nel suo intervento al 7mo Congresso Internazionale di Slow Food che proprio qui a Chengdu è venuto a riunirsi.
Non a caso, perché qui si delinea, con tutte le incertezze e le contraddizioni del caso, una controtendenza rispetto all’accelerata urbanizzazione del paese, o, almeno, affiora la presa di coscienza dell’urgenza di ripensare a uno sviluppo che ha puntato tutto sull’industria e ha lasciato le campagne nell’arretratezza.
Il professor Wen Tiejun non è uno qualsiasi, come Simone Pieranni ha avvertito i lettori de il manifesto presentando il congresso di Chengdu. Viene dalla politica, ma a un certo punto ha deciso di prenderne le distanze giudicando più efficace quanto poteva fare partendo dall’Università (è oggi docente illustre in parecchie facoltà cinesi).
È un ottimista. C’è una evidente crisi del capitale finanziario a causa del surplus accumulato – ha detto – ma nel pensiero cinese ogni crisi è anche un’opportunità. Comunque una sfida.
Finora quanto è accaduto è stato distruttivo per la natura e l’alimentazione ma la Cina sta decidendo di cambiare: da pro-capitale vuole diventare pro-umanità in nome di una eco-civilizzazione.
Il surplus finanziario che si è creato (e che è nelle mani di banche statali ) – ecco in sostanza la sua ricetta – deve essere investito nell’agricoltura contadina che è stata abbandonata.
Non è solo un problema economico, naturalmente: perché ci sia un ritorno – anche umano – nelle campagne bisogna ricreare i villaggi, ridinamizzare la loro vita sociale e culturale. Ed è proprio su questo che si è fatto l’incontro con Slow Food, co-promotrice del primo «villaggio Slow», cui dovranno seguirne nei prossimi 5 anni altri mille, in grado «di lanciare una rinascita rurale, che coinvolga tutti ma in particolare i contadini, con l’obiettivo di avviare uno sviluppo rispettoso dell’equilibrio ecologico e della biodiversità».
Non sono state solo parole.
Intrecciato al congresso di Chengdu – ricco di banchetti e spettacoli teatrali – si è svolto ad An-ren, vecchio borgo a 70 km dalla città, il Forum nazionale delle cooperative contadine, animatore proprio il professor Wen, delegati parecchie centinaia di contadini, in larga parte giovani, provenienti da tutta la Cina.
Il dibattito si è richiamato al primo documento in cui – come è scritto nel programma del Forum – «le autorità cinesi hanno riconosciuto, nel 2014, l’importanza di una riforma rurale in grado di mantenere l’agricoltura a fondamento dell’economia cinese», integrata con i due altri settori produttivi, quello industriale e quello terziario.
Speaker del Forum molti docenti dell’Istituto per lo sviluppo rurale, architetti, contadini protagonisti di esperienze innovative, animatori culturali, qualche dirigente di partito e governativo. Persino il signor Zhang Lei, general manager di una azienda che ha costruito il grattacielo più alto della Cina e ora ha deciso di aiutare la ricostruzione dei villaggi (speriamo con edifici che non superino i due piani ) e il signor Ye Da Bao che ha illustrato i vantaggi della diffusione di B&B nelle campagne, non solo per incrementare i redditi ma anche per far riscoprire ai cittadini i paesaggi rurali.
Il primo villaggio in costruzione l’abbiamo visitato, un misto di antichissime mura e di capanne, attorno una curatissima piantagione di frutta e verdure, ovunque i cartelli in cinese con le parole d’ordine di Slow Food e la foto di Carlin Petrini, acclamato e abbracciato come il redentore.
Al Congresso internazionale, presenti 400 delegati provenienti da 92 paesi del mondo, la neonata (tre anni di vita) Slow Food Cina ha ribadito con realismo il proprio impegno. Lo ha fatto la presidente Qiao Ling, figlia di uno degli eroi della Lunga Marcia, dicendo che i danni all’ecosistema in Cina sono enormi e ci vorranno forse tre decadi per una svolta nel modello di sviluppo.«Non siamo sicuri al cento per cento che ce la faremo, ma siamo impegnati a farcela».
Vittorio (che in realtà si chiama Qun Sun, ma questo nome gli è stato dato in Italia, dove è stato a lungo prima di rientrare in patria),oggi segretario generale di Slow Cina, ha raccontato di quante nuove associazioni si stiano creando decise a sostenere questa riscoperta delle campagne. A Chengdu ogni grattacielo si sta impegnando a raccogliere fondi per aiutare la costruzione dei mille villaggi.
Se è vero che la Cina è stata il focus del congresso, l’interesse degli interventi dei delegati arrivati da altri continenti non è stato certo da meno.
Anche per l’estrema varietà delle problematiche illustrate dai 400 diversissimi delegati: Kathryn Lynch, per esempio, che si batte nella Detroit distrutta dalla de-industrializzazione, dove si sta ripensando la città tenendo a mente un uso diverso dei suoi spazi, nei quali stanno sorgendo orti urbani gestiti da comunità che vogliono sicurezza del cibo; o Nicolas Mukumo Mushumbi, pigmeo del Congo, che ha tenuto a battesimo, nella foresta di Kiwu, il primo evento di Terra Madre; e ancora Reveca Cazenave-Tapie, di Bahja, che di Presidi Slow Food ne ha costruiti ben 270; Edward Mukiibi dell’Uganda, che ha raccontato di come il progetto di creare 10 mila orti in Africa stia nel suo paese avanzando e aiutando i bambini a provvedere al loro nutrimento.
E André Chiang, chef titolare di un ristorante a Singapore (è il secondo dell’Asia e il quattordicesimo del mondo) che, quando dieci anni fa è tornato in patria dall’Europa, ha scoperto che la natura era stata dimenticata e ora il suo menu cambia 24 volte all’anno, seguendo i cicli delle microstagioni.
Anche una giapponese in kimono fiorito, Remi Ie (ex alunna dell’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, quella creata da Slow Food), che ha raccontato come il mutamento climatico ha rovinato la risorsa ittica dell’oceano.
E tanti altri ancora, rappresentanti dei presidi Slow Food della terra, vilipesa ma anche rapinata e accaparrata.
Molti altri delegati hanno studiato a Pollenzo, e sono poi tornati in patria impegnandosi nella crociata per salvare la terra dalla sua autodistruzione.
«Una battaglia difficile, perché l’agricoltura – come ha detto nelle sue conclusioni Carlin Petrini rieletto con standing ovation presidente di Slow Food internazionale – è carnefice e insieme vittima». «Il danno all’ecosistema – come ha documentato Francesco Sottile, dell’Università di Palermo – è infatti generato per il 38 per cento dai pesticidi e per il 31 per cento dagli allevamenti, ma la terra è a sua volta devastata dalle emissioni dell’industria e dallo spreco urbano.
Il ritorno all’agricoltura contadina è importante proprio per ridurre i guasti delle grandi coltivazioni a monocoltura dell’agrobusiness, degli allevamenti che somigliano alle catene di montaggio, dove, per produrre un kg di carne si consumano 20 kg di mangime, dall’uso degli Ogm, dagli irrazionali trasporti (in albergo in Cina ti offrono la francese acqua Evian!).
Basterebbero questi dati per rendersi conto di quanto il problema sia complesso.
Se si guardano poi i dati cinesi si resta paralizzati perché tutto si moltiplica per miliardi. Tanto per far un esempio, qui si producono 700 milioni di maiali l’anno. Quando il professor Wen mi ha detto che in Cina ci sono oggi tanti disoccupati quanto tre quarti della popolazione italiana, e cioè 45 milioni, sono sobbalzata. Poi mi sono resa conto che si trattava solo di meno del 3 per cento, vale a dire una percentuale infinitamente più bassa di quella italiana.
[do action=”citazione”]La neonata sezione cinese dell’associazione ha come obiettivo la costruzione di mille villaggi rurali[/do]
Prima di ripartire ho partecipato a una assai interessante colazione con il vice segretario del partito di Chengdu, vale a dire una delle massime cariche politiche. Giovane, simpatico, aperto. Abbiamo ovviamente parlato del ritorno alle campagne.
Di questa svolta è convinto e pensa che ce la faranno. Come Wen, pensa sia possibile indirizzare il mercato nella giusta direzione, ma ammette che qualche volta ci si riesce, qualche volta no. A dimostrazione di quanto il mercato sia inventivo e bizzarro porta l’esempio della nuova app che si è diffusa nel paese, non si sa nemmeno come, e ora consente ai cittadini di «saltare» le banche di cui noi, stupidamente, dipendiamo con le nostre carte di credito: già 700 milioni di cinesi pagano sul telefonino. Al mercato li avevo guardati armeggiare, senza nemmeno capire cosa stessero facendo, ai banchi della frutta o della verdura.
Chi sono oggi i contadini cinesi?
Si sa che sono ancora tanti, sebbene adesso la popolazione urbana abbia superato quella rurale (e però le cifre sono incerte perché molti lavorano in città ma continuano ad essere registrati in campagna dove i figli possono godere di un po’ di welfare). La terra è dello Stato, che ne gestisce direttamente una parte cospicua (molta l’esercito), il resto i contadini. Ma qui in Cina tutti – si può dire – sono stati contadini almeno fino alla generazione dei loro padri.
Contadino è anche il più ricco di Chengdu, Liu Hunian. Diciassettenne poverissimo alla fine degli anni ’80 riuscì a scoprire come allevare i pesci nell’acqua corrente. La sua storia la raccontò Maria Pace Ottieri in un libro – I ricchi dei paesi poveri – scritto dieci anni fa quando venne a Chengdu per intervistarlo. Oggi la sua Tongway ha 40 aziende in Cina, è stata fra le prime 100 del paese a essere quotata in borsa, ed è fra le 50 cinesi più competitive. Lui stesso è stato incluso fra i primi dieci imprenditori della Repubblica popolare.
A stare a quel che dice, l’essere uno dei pionieri dell’agrobusiness non gli impedisce di affermare l’importanza dei contadini. Che peraltro in Cina non sono solo produttori, perché l’agricoltura è dove ha le sue radici la Rivoluzione, vale a dire il contesto in cui è nata ed è cresciuta la storia della Cina moderna.
È difficile capire la Cina. Il fatto è che qui ogni problema diventa gigantesco, e perciò ogni obiezione mi si spegne in bocca, perché ricordo bene una conferenza anni fa a Pechino in cui un giovane olandese di estrema sinistra spiegava a un cinese cosa avrebbero dovuto fare per garantire democrazia e benessere e quello, dopo esser stato pazientemente a sentire, gli ha chiesto: Quanti siete voi in Olanda?». «Sei milioni», ha risposto fiero l’olandese. «Allora – ha concluso il cinese – quando sarete un miliardo e 600 milioni ne riparliamo».
I giorni del congresso hanno coinciso con il 67mo anniversario della vittoriosa rivoluzione. L’enorme piazza centrale di Chengdu, dove sorge una gigantesca statua di Mao Tse Tung, era affollata di contadini – li si riconosce di lontano oramai tanta è la differenza antropologica rispetto ai cittadini – che avevano approfittato della festa per venire a vedere la stupefacente modernità di Chengdu. Mao deve essere stato contento del congresso di Slow Food e della riflessione che si è aperta sull’importanza delle campagne.
E così, alla prossima edizione di Terra Madre, Torino settembre 2018, sarà presente il primo villaggio Slow cinese. Anche il vice segretario del partito si è detto entusiasta dell’idea.
Speriamo bene.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento