È un volume prezioso e documentato con rigore scientifico quello che Isabella Mattazzi, docente di letteratura francese all’università di Ferrara, dedica alla figura di Charlotte Delbo, scrittrice e intellettuale che si colloca a pieno titolo nella «costellazione concentrazionaria». A spiegare le ragioni di questa appartenenza, tra parabola biografica e scrittura, viene ora pubblicato da Mimesis La (in)dicibilità del male (pp. 140, euro 14), prima monografia italiana su Delbo che illumina la vita e la voce di un’autrice poco conosciuta in Italia (se non per il lavoro di traduzione di alcune opere – per la casa editrice Il filo di Arianna – da parte di Elisabetta Ruffini, direttrice dell’Istituto bergamasco della Resistenza e dell’età contemporanea).

TRA I NUMEROSI PREGI, il volume di Isabella Mattazzi ha quello di raccontare una vicenda che si articola dal punto ineludibile e di rottura rappresentato dalla deportazione ad Auschwitz di Delbo, il 2 marzo del 1942 (poi Birkenau e infine Ravensbruck, fino alla liberazione il 23 aprile 1945), offrendo una profondità precedente e successiva riguardo le sue origini e la sua storia. Nata nel 1913 in una famiglia di immigrati italiani nell’Ile de France (suo padre era operaio alla Moisant e suo nonno lavorava nei cantieri di Gustave Eiffel), Charlotte Delbo si iscrive alla Jeunesse communiste nel 1932, su consiglio di Henri Lefebvre che, non ancora docente alla Sorbona bensì lavoratore alla Citroen, diventa un interlocutore importante nella sua formazione.

Durante il giorno fa la stenodattilografa e di sera segue i corsi di filosofia, storia e economia alla Université ouvrière. Quando si sposa con Georges Dudach, nel 1936, la sua esperienza culturale – e redazionale – si espande, con recensioni e interviste nell’esercizio dedito di una scrittura e un pensiero che la porterà alla collaborazione con il regista e attore Louis Jouvet. La Resistenza al nazismo, l’entrata in clandestinità, la fucilazione del marito (il 23 maggio del 1942) si intrecciano con un desiderio potente di non perdere la propria voce, cifra di autenticità per Delbo che si oppone alle appartenenze e agli ideologismi. Tornata dal campo di sterminio, nel 1946 scrive Aucun de nous ne reviendra per pubblicarlo circa vent’anni dopo. Non solo in questo testo, in cui il nome di Auschwitz compare una sola volta, viene restituito lo sguardo di una vita dopo il Lager.

MATTAZZI SCANDAGLIA la produzione di Delbo e consegna il vivo intendimento di comparsa delle altre compagne deportate, in totale 230, nella nudità dei tratti biografici riscontrabili in Le convoi 24 janvier, ponendo il rapporto inemendabile del trauma a quello del ritorno (quest’ultimo tematizzato anche in Mesure de nos jours). La relazione tra verità e veridicità si gioca, e si scontra, infine nella dicibilità o inesprimibilità del male che, nella penna di Charlotte Delbo ha conosciuto una urgenza febbrile.
Tra il 1945 e il 1948 sono almeno un centinaio i testi di testimonianza che vengono pubblicati. Secondo Mattazzi – che correda il suo libro con una nutrita bibliogragfia e un dossier fotografico finale che ritrae Charlotte Delbo – non si trattava allora di un intento di trasmissione della memoria né di una volontà pedagogica o educativa, quanto piuttosto di un bisogno di «ricostituzione dell’Io» nell’opera di «sutura linguistica» capace dunque di radunare, unire, una lacerazione identitaria e sociale, conseguente alla permanenza in un campo di concentramento. Si colloca qui quel senso insopprimibile verso la parola come possibilità di «espulsione del dato esperienziale» di Charlotte Delbo, nella medesima intenzione di autori dello stesso periodo, per esempio Jean-Jacques Bernard o Julie Crémieux-Dunand.