«Non esagero dicendo che Bolsonaro è stato un prodotto dell’operazione Car Wash, e che quest’ultima continua ad influenzare quanto avviene in Brasile» afferma Maria Augusta Ramos quando la incontriamo su Zoom per parlare del suo film Amigo Secreto, presentato a DocLisboa.

Un lavoro di ricostruzione della vicenda giudiziaria che ha scosso il Paese negli ultimi anni e che diventa fortemente attuale ora, a nove giorni dal secondo turno delle elezioni in cui si confronteranno Lula e Bolsonaro.

Il film prende il titolo da una chat di Telegram intitolata appunto «amico segreto» in cui il giudice Sérgio Moro consigliava strategie e passi da compiere al pm Deltan Dallagnol, con l’obiettivo di «incastrare» Lula. Nonostante Ramos, nata a Brasilia nel 1964, abbia scelto un approccio documentaristico teso all’esposizione dei fatti, le emozioni irrompono quando l’ex presidente interviene.

Dapprima durante il processo, mentre Moro lo incalza con domande sulla sua presunta corruzione; poi durante la carcerazione dove, in lacrime per alcune perdite familiari subite, dichiara lealtà al suo Paese; infine al comizio che ha seguito la liberazione, un momento di festa collettiva. Ciò che evidentemente indigna la regista è quello che viene definito «lawfare» – l’utilizzo della giustizia per scopi politici.

La scelta è allora quella di dare voce a chi ha contribuito a smascherare l’architettura, ai giornalisti e alle giornaliste – in particolare di «The Intercept Brasil» – che fanno anche un interessante mea culpa sulla necessità di verificare più a fondo le notizie prima di divulgarle. Paradosso del paradosso, il film si chiude con Bolsonaro che invoca lo scioglimento della Corte suprema – quella stessa che lui aveva promosso all’interno del suo governo, nominando Moro ministro della giustizia, secondo una logica di ricompense nemmeno celata. Quando incontriamo Ramos, la regista appare fortemente toccata da quello che il suo Paese sta attraversando.

Credi che l’operazione Car Wash abbia ancora un’influenza sugli eventi politici brasiliani?

Ho iniziato a svolgere ricerche prima che i messaggi tra il giudice Sérgio Moro e il pm Deltan Dallagnol fossero rivelati. Già allora molti giuristi, avvocati e giudici con cui avevo parlato erano piuttosto critici sui metodi e avevano denunciato alcuni procedimenti che successivamente sarebbero venuti a galla. Una delle questioni principali è che l’unità anti-corruzione che ha dato vita all’operazione Car Wash ha avuto il sostegno dei grandi media così da manipolare l’opinione pubblica e mettere pressione alla Corte suprema.

Il giudice Moro e i pm sembravano degli eroi, non è stata data voce all’altra narrativa, ovvero all’arbitrarietà del procedimento. È la stessa dinamica accaduta con l’impeachment di Dilma Rousseff, avvenuto su basi politiche, e credo sia qualcosa di simile a quello che è accaduto in Italia con Mani pulite.

La pressione del pool è stata veramente forte, con la retorica dell’anti-corruzione sono state commesse violazioni come incarcerare persone per estorcere dichiarazioni, inviare alla stampa testimonianze non ammissibili e tante altre azioni che hanno contribuito a creare un clima. Si è cercato di criminalizzare la politica e di demonizzare la sinistra, oscurando completamente i risultati importanti che quei governi avevano raggiunto, soprattutto a livello sociale. È un sospetto difficile da sradicare, bisogna fare veramente attenzione a come la legge può essere usata contro gli avversari politici.

Lula e Moro durante il processo

È per la responsabilità dei media che hai scelto di adottare il punto di vista dei giornalisti, per mostrare che c’è chi ha lavorato con un altro tipo di approccio?

nei miei film non utilizzo interviste, li costruisco a partire dall’osservazione dei personaggi che decido di seguire riprendendoli nel loro ambiente, nella loro quotidianità e interazioni.

Questa volta ho scelto di filmare i giornalisti durante il loro lavoro perché Amigo secreto è dedicato al processo di inchiesta, alla raccolta dei dati e alla ricerca della verità.

Non credo che sia possibile essere imparziali, ma si può essere onesti e attenersi ai fatti. È lo stesso che, credo, bisogna fare nel documentario.

Nei tuoi film avevi già indagato altre volte il sistema giudiziario brasiliano, perché continui a documentarlo?

Attraverso le corti e quello che accade nel «teatro della giustizia», un Paese si rivela nelle sue specificità che hanno, tuttavia, anche dei caratteri universali.

C’è poi un forte lato emotivo, perché osservare il funzionamento della giustizia significa anche una madre che vede suo figlio entrare in galera, o una ragazza che ha perso il padre in una rapina. Ci sono quindi le emozioni e il modo in cui la società le affronta. Nelle Corti poi non manca il razzismo, l’ineguaglianza e così via, tutto quello che fa parte di un Paese. È una scena interessante, che rivela molto.

Nel caso del Brasile, la classe media e l’élite è per lo più bianca, conservatrice e razzista. L’ineguaglianza è sostanzialmente accettata perché è radicata nel passato, nella schiavitù, e Bolsonaro rappresenta tutto questo.

C’è molta tensione rispetto alle elezioni perché, come già altri leader in Sudamerica, in caso di vittoria aumenterebbe il numero dei rappresentanti della Corte suprema così da poterla controllare a piacimento durante il suo mandato. C’è veramente il rischio della fine della democrazia in Brasile, ma questo non può e non deve accadere.