Zaporizhzhia si sveglia con il suono funereo delle sirene antiaeree. Assolata e blindata, la città cosacca a 30 km dalla linea del fronte, vede il cerchio stringersi intorno: a est infuriano i combattimenti nel Donbass, a sud più di metà dell’Oblast di Zaporizhzhia è caduta nelle mani dei russi. Tra i trofei degli invasori, anche Enerhodar, città dove ha sede la più grande centrale nucleare d’Europa.

ORA L’ORSO PUNTA DRITTO a Zaporizhzhia. La scorsa settimana i missili russi hanno colpito la città. Chortycja, per l’esattezza, l’isola più estesa del fiume Dnipro. Bilancio: otto feriti. Un avvertimento da parte dell’esercito russo che ieri, secondo fonti ucraine, avrebbe ammassato mezzi e uomini nei villaggi di Velyka Novosilka, Novodarivka e Malynivka, tentando l’avanzata verso la città.

Sospesa nell’attesa di un attacco, Zaporizhzhia continua ad aprire le porte ai profughi in fuga dai territori occupati a sud e ad est. Da qui sono passati più di 150mila rifugiati dallo scoppio della guerra. 33mila sono rimasti a Zaporizhzhia. Una città al collasso: quella che era una porta d’ingresso, un approdo temporaneo per i rifugiati, si sta ora trasformando in una destinazione a lungo termine.

Intorno i corridoi umanitari funzionano a singhiozzo, anche gli aiuti fanno fatica ad arrivare nei territori in mano ai russi. Nessuna tregua pasquale, nessuno spiraglio per una trattativa. L’ultima possibilità è saltata ieri: non ci sarà alcuna evacuazione da Mariupol in giornata, è il bollettino diramato dalla vicepremier ucraina, Iryna Vereshchuk.

NADIA ERA STATA AVVISATA. «Andate via da qui, dopo sarà terribile» le avevano detto i soldati russi che avevano fatto irruzione in casa, più e più volte. Rostov era la destinazione che si era sentita suggerire dagli invasori. Nadia però non aveva dato loro ascolto. «Pensavamo che sarebbe finito tutto nel giro di pochi giorni», spiega la donna, mentre affonda la testa nelle mani.

I giorni si sono trasformati in settimane e mesi e Nadia, come tanti, è rimasta in trappola in quella che sarebbe diventata la città martire d’Ucraina, Mariupol. Niente acqua, niente elettricità, le scorte di cibo che si esaurivano, i cadaveri per strada, le settimane trascorse al buio nelle viscere di uno scantinato. E un missile, arrivato dritto sulla sua casa, ridotta a un cumulo di macerie. Questi i ricordi che Nadia si porterà dietro di questa «operazione speciale».

E POI LA FUGA. Nove giorni di viaggio per salvarsi la pelle. Da sola, a piedi per chilometri, prima di trovare un uomo disposto ad accompagnarla fino a Berdiansk. Quando è arrivata a Zaporizhzhia, il suo corpo ha ceduto. Un’emorragia, poi il ricovero d’urgenza in ospedale.

Parla a fatica Nadia, negli occhi l’orrore del vuoto. «Ci odiano, ci vogliono cancellare dalla faccia della terra» si sfoga. Nadia è sola, ha perso i contatti con il resto della famiglia e ora non ha un posto dove andare. Sua figlia è fuggita portando con sé i suoi bambini, per la madre non c’era posto. È anche questa la logica brutale della sopravvivenza.

Il percorso per Palace Kazak è uno slalom tra cavalli di Frisia, sacchi di sabbia e posti di blocco. Qui è un brulicare di donne e uomini, soprattutto anziani, funzionari che compilano moduli per l’assistenza, volontari che danno una mano come possono. Vestiti, scarpe, coperte, cibo, medicine.

A Zaporizhzhia arrivano aiuti umanitari da ogni parte d’Ucraina e d’Europa e da qui vengono smistati verso i territori occupati o distribuiti ai profughi che riescono a fuggire.

RANNICCHIATA SU UNA SEDIA c’è Halina, prossima ai settanta. Occhi dolci, mani salde, Halina è sopravvissuta per un unico motivo: dare una degna sepoltura a sua figlia perché un giorno riposi in pace. Il corpo giace tra le macerie di Mariupol insieme a quello di migliaia di civili uccisi nella città sotto assedio.

Su un bus di profughi di Mariupol in arrivo a Zaporizhzhia

Halina ha ancora lacrime per piangere e preghiere da recitare. «Mariupol non c’è più», continua a ripetere come una litania. Un lungo viaggio l’ha portata fin qui. Lei, Halina, che si muove a fatica con un bastone, ha attraversato quattro paesi per ritornare in Ucraina: Russia, Lettonia, Estonia, Polonia. «Non c’erano alternative: per fuggire c’era un solo corridoio, direzione Est», spiega la donna.

La sua fuga però non è finita a Rostov, ma è continuata finché non è riuscita a raggiungere sua figlia, scappata in Polonia nei primi giorni dell’assedio. Un’odissea per arrivare a Zaporizhzhia, il punto d’approdo più sicuro e più vicino alla sua Mariupol. «Era una città luminosa, ora è completamente rasa al suolo. Tutte le infrastrutture sono crollate, le fabbriche sono distrutte», racconta la babushka.

Dell’assedio Halina non ha visto quasi nulla, ma ricorda bene il suono. I colpi di artiglieria, il tuono dei missili schiantatisi a pochi metri dal rifugio in cui era nascosta. «Per 40 giorni – dice – non ho visto la luce, per 40 giorni non ho lavato i capelli».

LE COMUNICAZIONI erano interrotte, impossibile tenersi in contatto con la famiglia. A tenerla in vita è stato un ragazzo, il più giovane nell’edificio in cui abitava, che usciva a prendere del cibo, dell’acqua e della legna con cui cucinare.
«Non so perché i russi abbiano scatenato questa guerra, so solo che hanno ucciso mia figlia, hanno distrutto la mia città, le persone che conoscono sono quasi tutte all’estero», racconta ancora Halina, incredula davanti all’insensatezza della guerra.

Anche nella tragedia la babushka riesce a intravedere una speranza: «Non ho mai visto il mio paese così unito, non ho mai visto tanta solidarietà nella mia vita».