Nel ritmo ipnotico del dolore
Intervista Parla Valentina Medda, autrice del video «The Last Lamentation» che unisce le litanie delle prefiche e il ricordo dei morti nel Mediterraneo. «Quel mare in cui mi sono bagnata fin da piccola è oggi un cadavere, volevo rendergli omaggio, dirgli addio, offrirgli dignità. Ho cercato un rito funebre leggibile e codificabile per tutti»
Intervista Parla Valentina Medda, autrice del video «The Last Lamentation» che unisce le litanie delle prefiche e il ricordo dei morti nel Mediterraneo. «Quel mare in cui mi sono bagnata fin da piccola è oggi un cadavere, volevo rendergli omaggio, dirgli addio, offrirgli dignità. Ho cercato un rito funebre leggibile e codificabile per tutti»
Una processione di donne vestite di nero, un lento cammino verso la spiaggia, fino al mare, per celebrare una cerimonia funebre. Uno sciame sonoro e di silenzi, gesti, una rivisitazione astratta e contemporanea dell’antica tradizione di rituali per rendere omaggio al Mediterraneo, culla di civiltà, luogo di migrazione e naufragi. Un richiamo all’attualità e al lutto in assenza, per ridare dignità a tutte le persone scomparse.
È The Last Lamentation, opera video dell’artista Valentina Medda, a cura di Maria Paola Zedda, che è stata proiettata in prima assoluta alla Certosa monumentale di Bologna (per Art City), e da ieri si può vedere al Man di Nuoro fino al 16 giugno.
«Il progetto nasce dall’idea del Mediterraneo, per indagare il tema del mare e quello che sta succedendo: una diaspora contemporanea. Le morti e il mare, che ai miei occhi diventa non un cimitero, ma un insieme di corpi che si sfaldano e lo ricompongono, materia organica che lo caratterizza in cui gli elementi appartengono sia all’acqua che al corpo, cellule epiteliali, fluidi – spiega Medda –. Un mare che non contiene corpi, perché tali non sono più avendo perso il loro confine, ma che è diventato corpo-ibrido esso stesso».
L’ARTISTA SI È CHIESTA cosa succede nel Mediterraneo e cos’è oggi quel mare nel quale si è bagnata da quando aveva due mesi, in cosa si sia trasformata quell’acqua. «Il mare è diventato cadavere, volevo rendergli omaggio, salutare, dirgli addio, offrirgli dignità. Per questo mi sono rifatta al funerale e alla lamentazione, cercando un rito funebre leggibile e codificabile per tutti. Sono andata a ripescare il rito delle prefiche, comune a molti paesi che si affacciano sul Mediterraneo, un elemento che culturalmente li unisce, e a studiare le cerimonie del lutto nella mia Sardegna. Del rituale m’interessava che mettesse in prima linea le donne, l’idea della cura, ma in una dimensione di potere. Le donne, infatti, accompagnano la persona nell’aldilà, nell’estremo saluto». In Sardegna, continua Medda, ci sono le attittadoras, dal verbo attittare che significa cantare la litania funebre, e in cui attitto è l’azione, e titta il seno, in una connessione fra vita e morte, in una circolarità, come nell’ipnosi della musica iniziale, i gesti ripetitivi dell’evento che non termina, ma continua a riprodursi uguale a sé stesso. «Il pianto permane finché ci saranno morti nel Mediterraneo, non c’è catarsi, stiamo solo iniziando a piangere».
C’È ALLORA LA RIPETIZIONE, il ritmo ipnotico lento fa parte dei movimenti e di quello che sta succedendo. «Le donne sono in prima linea, chiamate a piangere per interposta persona, delegate al dolore di chi ne è afflitto, perché chi lo è direttamente corre il rischio dell’impazzimento, come sostiene l’antropologo Ernesto De Martino nel suo testo Morte e pianto rituale. Il dolore è talmente forte che viene inscenato teatralmente da donne che imparano a piangere per gli altri e nel farsene carico rinnovano il proprio. In genere sono anziane che hanno già vissuto lutti, nel pianto per altri c’è anche quello privato. È un elemento che nella nostra contemporaneità non esiste più, la possibilità di autorizzare uno spazio per il dolore pubblico. Dopo il funerale, non c’è un altro momento in cui si possa piangere fuori dalle mura domestiche, non siamo abituati a vedere qualcuno che lo faccia».
LA TRADIZIONE della riunione delle prefiche ha anche l’importante funzione di rinnovare la comunità. «In Barbagia sono rimaste poche donne a tramandare questo rituale perché chi lo faceva è stata considerata ignorante, poco evoluta – racconta Medda – ha prevalso un senso di vergogna. In alcuni casi, la tradizione dell’attitto convive con quella religiosa delle prioresse, le cantrici del rosario. Quello che succede in casa, prima di arrivare in chiesa, è l’attitto, spesso a farlo sono le stesse donne in un sincretismo tra sacro e pagano. La prefica conosceva le litanie e sapeva attittare».
Nel rituale c’è un impianto che si basa sulla lirica ma Medda non ha utilizzato la parola, poiché ha preferito «un lavoro che scavallasse le culture e la parola era un ostacolo. La prefica ha una partitura aperta sulla quale improvvisa in versetti, raccontando episodi della vita del morto. Le donne si danno il cambio in una sorta di coro. Ora stanno scomparendo, alcune lo fanno solo per i familiari o per persone care, non più per il paese, come accadeva un tempo».
FRA LE DODICI PROTAGONISTE del video ci sono anche non professioniste. Per la costruzione del movimento e della voce l’autrice non ha fatto ricorso alla litania «ma a una partitura intessuta di respiri, singulti e singhiozzi che compongono un canto senza parole. La compositrice Claudia Ciceroni ha fatto anche la vocal trainer. Ho iniziato dai gesti dell’iconografia trovati nelle mie ricerche e ho lavorato sulla partitura gestuale fino ad asciugarla, mi interessavano alcuni elementi minimali. La performance e il video hanno conseguito esiti diversi. Alcuni gesti appartengono al mio immaginario delle lamentazioni in Puglia in cui si usano i fazzoletti che sembrano uccelli in volo. Le donne che si coprono il capo rievocano le ali nere di un corvo, un movimento inventato che usa il vestito di scena come strumento funzionale all’azione. Quella gonna con sopragonna, tirata sopra il capo, appartiene alla tradizione sarda».
Ritmo e lentezza preparano a un’avanzata ipnotica con un’aggregazione finale, c’è un movimento che non cresce nella musica, ma nella ripetizione, non melodrammatica o caricaturale. «Volevo innescare un meccanismo di visione e azione. Il mio non è un lavoro sulle lamentazioni, ma una lamentazione sul Mediterraneo come corpo cadavere, ibrido, che interseca il pensiero transfemminista – ci tiene a specificare l’autrice -. Le donne le vediamo da lontano, osservano il mare perché lo spettatore è lì che deve rivolgere l’attenzione. Sono un mezzo per concentrarci oltre il loro sguardo, seguirlo, allinearci. Nel finale, prevale una sensazione sospesa, l’azione non si conclude. Non abbiamo smesso di piangere e non dovremo smettere perché ancora accade e accadrà. Ci tenevo a girare questo video nella zona in cui sono cresciuta, vicino a dove vado fin da piccola, un agglomerato di case degli anni ’70 (citato anche da De Martino in Morte e pianto rituale, ndr). Mare e vento sono elementi drammaturgici, la voce degli elementi che sale. Un climax della natura, l’elemento che si ribella, prendendo il sopravvento».
IL PROGETTO, a cui Valentina Medda lavora dal 2018 con una prima tappa a Beirut, è vincitore del bando dell’Italian Council. Al Man sono esposte anche le «tappe» preparatorie: collage, fotografie, disegni e alcune sculture di ceramica create intorno ai fazzoletti della tradizione pugliese, la cui anima di tessuto nella cottura brucia lasciando un’assenza, simbolica.
L’opera video verrà acquisita nelle collezioni del Mambo di Bologna entro il prossimo giugno, mentre la performance The Last Lamentation, altro tassello del progetto, sarà in scena alla seconda edizione di Supernova a Rimini il 20 aprile e tornerà al festival di Santarcangelo, il 13 luglio.
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