Con questo suo possente film d’esordio, Los Colonos, Felipe Galvez, premio Fipresci al Certain Regard di Cannes, candidato agli Oscar per il Cile, entra in un labirinto di cancellazioni che ancora convivono con la modernità del paese, quell’originaria carneficina di nativi comune anche ad altri paesi del latinoamerica su cui il cinema ha continuato a lavorare. Il film ora in sala e su Mubi dal 29 marzo, ci porta inizialmente a esplorare l’immenso territorio che si distende ai piedi delle Ande, nella Terra del fuoco, nel 1901. Vento, fruscii, sonorità di zoccoli dei cavalli e soprattutto un battito di tamburi a evocare minaccia e paura, oppure il profondo battito del cuore della terra. In tutto il continente latinoamericano la terra, agli occhi dei colonizzatori, sembrava essere deserta, terra di nessuno da potersene appropriare, indios considerati come bersaglio da abbattere. Oro e argento per gli spagnolinegli imperi del sedicesimo secolo, allevamenti di pecore al sud e miniere al nord del Cile per i conquistatori inglesi padroni del paese, come indicano ancora padri della patria e avenidas nelle città, prima dell’arrivo di aristocrazia basca, spagnola e infine manovalanza irlandese e italiana. Un predominio tanto fondante nel paese che emerge ancora dall’importanza data ai doppi cognomi che indicano la discendenza e la differenza di classe.

IL BUONO, IL BRUTTO e il cattivo: Segundo, il ragazzo meticcio che si occupa delle pecore e degli «alambrados» i recinti,(uno dei primi film che parlava di delimitazioni della terra patagonica era Alambrado, di Marco Bechis), il feroce scozzese Alexander MacLennan, soprannominato il Porco Rosso (El Chancho colorado) che, tra un’atrocità e l’altra, ogni tanto mostra barlumi di raziocinio, che si fa chiamare tenente e indossa la divisa dell’esercito inglese. E il cowboy texano, un mercenario reduce dagli scontri con Comache e Apache, ogni scalpo consegnato una ricompensa. I tre iniziano un viaggio a cavallo, inviati da don Menendez (Alfredo Castro, memorabile anche se ripreso al buio, di spalle o fuori campo), il padrone assoluto di tutta la Terra del Fuoco, a trovare una via all’Atlantico per far transitare le sue sterminate greggi di pecore. Un viaggio che ci fa avanzare in quello straordinario panorama patagonico (ripreso dal nostro direttore della fotografia Simone D’Arcangelo, vincitore del Globo d’oro per Re Granchio) riuscendo a non abbagliare, ma suggerire interessanti ombre del passato in un clima di allarme crescente, quanto più deserto è l’orizzonte. Nella Terra del fuoco, il popolo dei Selk’nam, gli Ona, furono sterminati dai coloni. Ne resta poco più di un migliaio, da poco riconosciuti come «popolo indigeno cileno»
Durante il viaggio ognuno di loro tre farà emergere la sua più profonda natura, razzismo, ferocia, obbedienza. La costruzione procede semplificando al massimo la messa in scena, come parte per il tutto: soltanto tre personaggi in scena più il padrone nello sfondo, bastano a raccontare la scellerata operazione di colonizzazione, lo sterminio sistematico delle popolazioni e l’appropriazione dei territori, azioni sottolineate dalla lingua inglese dei colonizzatori .

IL NON DETTO è esplosivo, la capacità di portarlo alla luce è notevole, indica che ci sono voluti anni per far emergere vicende storiche sommerse nelle coscienze e nella memoria. Il film si inserisce con autorevolezza nella contemporaneità, dalle manifestazioni dei Mapuche, le rivendicazioni sulle terre e tutte le problematiche culminate con l’elezione della loro prima rappresentante, Elisa Loncon, presidente dell’Assemblea costituente. Ma nel film gli indios sterminati non sono i battaglieri Mapuche, popolo mai domato, che cacciò Inca e spagnoli, ma i miti Selk’nam (detti anche Ona), dell’estremo lembo della Terra del fuoco, descritti in modo preciso, poetico, più con gli sguardi che con le parole. Un popolo quasi estinto sterminato ferocemente dai coloni e di cui restano poco più di un migliaio di individui che solo recentemente con una norma approvata dalla la Camera sono stati inclusi «tra i popoli indigeni dello Stato del Cile». Queste carneficine nel film non vengono mostrate, se non in piccola parte, ma in maniera ancora più straziante, vengono raccontate come fatti di cronaca.