«Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato». Lo slogan che sintetizza la volontà del «Partito», che da Londra guida una delle tre potenze totalitarie – nello specifico la Gran Bretagna rinominata come Airstrip One che è parte dell’Oceania – in cui è diviso il mondo immaginato da George Orwell in 1984, di esercitare un controllo assoluto sul tempo, ben si attaglia a qualsiasi regime autoritario. Ma, quando il romanzo fu pubblicato nel 1948, si disse che l’autore, un socialista che aveva a cuore la democrazia e che durante la Guerra di Spagna aveva combattuto nelle fila del Poum, d’ispirazione trotzkista, aveva modellato lo Stato autoritario al centro della vicenda sull’Unione Sovietica di Stalin come sulla Germania nazista di Hitler.

Quel che è certo, è che 1984 interroga ancora oggi il modo nel qualche chi detiene il potere, specie ma non soltanto nelle forme para-tiranniche, sia interessato a manipolare non solo le verità e i fatti correnti, ma anche il modo in cui questi ultimi possano prendere forma, o risultare in qualche modo conseguenti ad un passato se non fabbricato ad hoc perlomeno confezionato e rielaborato a tale scopo. Non a caso, tra le istituzioni descritte nel celebre libro, vi sono sia il Ministero della Verità, e del revisionismo storico, dove lavora il protagonista, Winston Smith, che la Polizia del Pensiero.

SENZA INDULGERE eccessivamente nel confronto con la realtà evocata in questo straordinario racconto distopico che non smette, a settantacinque anni dalla sua pubblicazione, di porre quesiti attuali e inquietanti, è però ad uno scenario del genere che si è portati a pensare al termine della lettura di Putin storico in capo dello studioso francese Nicolas Werth (Einaudi, le Vele, pp. 78, euro 12, traduzione di Piernicola D’Ortona, prefazione all’edizione italiana di Andrea Gullotta)).

Direttore di ricerca al Cnrs di Parigi, tra i maggiori studiosi internazionali della storia dell’Urss, tema a cui ha dedicato una trentina di opere, testimone diretto di molte vicende del Paese, fu attaché culturale all’ambasciata francese di Mosca nel periodo della perestrojka (1985-1989), ed è attualmente presidente di Memorial France, la branca transalpina della Ong russa messa al bando dal potere moscovita, Werth riflette, sulla scorta di un’ampia gamma di esempi, sul ruolo decisivo che «il controllo della memoria storica e dell’interpretazione del passato, hanno acquisito per l’attuale establishment russo. I ripetuti interventi pubblici che lo stesso Vladimir Putin ha dedicato negli ultimi anni a temi a prima vista lontani dall’agenda politica ordinaria, sono del resto la maggiore conferma alle analisi di Werth e illustrano il significato e la portata della posta in gioco su questo terreno.

Lo storico Nicolas Werth presidente di Memorial France

«LA PRINCIPALE RISORSA della potenza della Russia, nonché il suo avvenire, risiede nella nostra memoria storica» dichiarava Putin ancora il 14 marzo del 2013, inaugurando i lavori del I congresso della Società russa di storia militare, creata un anno prima con l’auspicio letterale di «inculcare il patriottismo e contrastare le iniziative che snaturino e screditino la storia militare della Russia».

LA NECESSITÀ di controllare e normalizzare la memoria e la storia russe diventano, a giudizio di Werth, una priorità del potere di Mosca nel momento in cui il Paese torna a proiettarsi aggressivamente verso l’esterno (la lunga serie di conflitti locali degli scorsi anni culminata con l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio del 2022) e intende ridurre al minimo gli spazi per l’opposizione interna, sociale e politica e per le organizzazioni dei diritti dell’uomo che spesso in Russia lavorano anche sul vasto campo della ricostruzione e della denuncia di quanto accadde durante gli anni del Terrore staliniano, vicenda quest’ultima tutt’ora avvolta da silenzi e censure anche per l’intoccabilità di larga parte degli archivi degli apparati di sicurezza, passati dal Kgb all’attuale Fsb.

Se la via intrapresa dal gruppo di potere guidato da Putin, non a caso cresciuto dentro lo stesso Kgb e poi all’ombra di Boris Eltsin, che da presidente della Russia volle nel 1998 che fossero seppellite a San Pietroburgo le spoglie dell’ultimo Zar, Nicola II, e della sua famiglia, sembra caratterizzarsi per una sorta di sincretismo tra l’eredità zarista e quella dell’Urss staliniana, la ricostruzione di un pantheon nazionale che elimini ogni contraddizione e distonia rispetto all’idea di un Paese determinato, coeso e orgoglioso della propria storia diviene una priorità perseguita con ogni mezzo.

«UN RACCONTO visceralmente antioccidentale, ultranazionalista e conservatore – suggerisce Werth – che esalta potenza di uno Stato forte in grado di realizzare, nel solco della grande tradizione slavofila dell’800, l’idea di una “via russa” allo sviluppo, fondata su un insieme di “valori spirituali” che si contrappongono a un Occidente aggressivo e decadente». Un racconto, infine «imperniato sulla grandezza e la gloria militare di una Russia “eterna” che sta rinascendo dalla ceneri dell’Urss».

In tale contesto, se le «reminiscenze zariste» sono spesso affidate al ruolo crescente assunto dalla Chiesa ortodossa, fedele alleata del Cremlino, nello spazio pubblico, l’intervento delle autorità in tema di storia nazionale, specie quella legata alla stagione dominata da Stalin, è stato puntuale e articolato. Nel 2009, sotto la presidenza Medvedev si crea la prima istituzione in tal senso dalla fine dell’era sovietica: la Commissione presidenziale sulla storia che deve sovraintendere al modo in cui sono affrontate le «zone buie» del passato, la vicenda dei Gulag, il patto Molotov-Ribbentrop, l’eccidio di Katyn… Nel 2012 vede la luce la Società storica russa che riunisce funzionari del Cremlino, rappresentanti delle maggiori università e musei e del più importante gruppo editoriale di proprietà dello Stato. Segue, nel 2012, il varo della Società russa di storia militare. Il tutto assortito da norme che limitano la ricerca storica e il silenzio imposto a chi, come l’ong Memorial, unisce l’indagine sul passato alla denuncia sul presente.

IN QUESTO SENSO, Werth illustra concretamente cosa stia accadendo e quali ne siano le gravi conseguenze. Ad esempio, col passare degli anni, il posto riservato nei manuali scolastici alle repressioni di massa del periodo staliniano, non ha fatto che diminuire. Se negli anni Novanta e Duemila il tema occupava una ventina di pagine all’ultimo anno di liceo, a partire dal 2014, in ottemperanza «alla norma comune in materia di cultura e storia», l’argomento viene affrontato al massimo in un paio di pagine. Al punto che, sottolinea lo studioso, «nel manuale di storia russa dai primi del Novecento agli inizi del XXI secolo, redatto da Vladimir Medinskij (ministro della Cultura dal 2010 al 2020), solo poche righe (sulle 430 pagine totali) evocano di sfuggita il Gulag, alla fine del capitolo dedicato all’Urss degli anni Venti e Trenta. Per giunta, si indica un numero di deportati nei campi che è l’ottava parte di quello storicamente accertato nel periodo staliniano». Inoltre, non si fa nessuna allusione a una specifica categoria di proscritti: chi veniva assegnato a una residenza e al lavoro forzato nei cosiddetti «villaggi di popolamento speciale», che circondavano i campi ed erano sottoposti all’amministrazione del Gulag, «realtà che arrivarono a contare sei milioni di persone».

E, anno dopo anno, a scandire le tappe di affermazione di questa tendenza chiave del ventennio putiniano, l’opinione pubblica russa ha sensibilmente mutato le proprie opinioni al riguardo. Secondo un sondaggio svolto nel 2019 dal Centro Levanda, considerato il più autorevole tra i per altro rari istituti cui è ancora concesso di saggiare gli umori della popolazione, la metà delle persone tra i 18 e i 24 anni che sono state intervistate, dichiara di non aver mai sentito parlare della repressioni staliniane. Nel complesso, il 70% dei russi giudica positivamente il ruolo di Stalin nella storia del Paese, mentre il 14% ne ha un’opinione negativa, contro il 45% nei primi anni Duemila. In qualche modo il potere «ha plasmato» il Paese secondo la propria volontà.