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Nel Mediterraneo il pesce boccheggia in un mare di guai

Il fatto della settimana I cambiamenti climatici hanno già compromesso il mare più ricco di biodiversità. Ma le specie ittiche spariscono anche a causa della pesca industriale

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 9 maggio 2019

Tonni diretti verso il Mare del Nord invece che verso il Mediterraneo, morìa di Pinna Nobilis, corallo rosso che stenta a crescere, acciughe in crisi riproduttiva, epidemie nei branchi di branzini, specie aliene sempre più invasive, mentre le meduse proliferano facendo incetta di uova di pesce, larve e fitoplancton.

BENVENUTI NEL MAR MEDITERRANEO in preda ai cambiamenti climatici, i cui effetti sono già ampiamente documentati. Non è una fosca previsione, è quanto che già accade nel Mare nostrum, il più ricco di biodiversità (rappresenta solo lo 0,82% della superficie dei mari, ma contiene l’8% delle specie marine), ma anche il più sensibile ai cambiamenti climatici perché è un mare meno profondo rispetto agli oceani e quindi si riscalda più velocemente. È un mare chiuso, che evapora più acqua di quanta ne possa ricevere dallo Stretto di Gibilterra e dal Canale di Suez. Ed è di conseguenza un mare ad elevata salinità, anche per il ridotto apporto di acqua dolce dai fiumi in tempi di prolungata siccità. La pesca delle acciughe nell’Adriatico si preannuncia magra quest’anno anche perché il Po e altri fiumi hanno portate scarse e le acciughe si riproducono se l’acqua è più dolce.

ALTRA CONSEGUENZA DEI CAMBIAMENTI climatici sui mari è la progressiva acidificazione, il cambio del PH dell’acqua causato dall’eccesso di assorbimento dell’anidride carbonica (CO2) che rende difficile, se non impossibile, la vita agli organismi costituiti da carbonato di calcio come i molluschi, i coralli e il plancton calcareo, mentre favorisce quelli gelatinosi come le meduse.

«Gli effetti dei cambiamenti climatici sono già molto evidenti, basta pensare a cos’era il mare quando eravamo ragazzi – ci dice Roberto Danovaro, docente di biologia marina all’Università Politecnica delle Marche, presidente della stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli – con l’aumento delle temperature il mare si impoverisce, le correnti più ricche di nutrienti non riescono a risalire, non si verifica il corretto rimescolamento delle acque, dunque diminuiscono le risorse alimentari e aumenta la vulnerabilità di un sistema complesso nel quale quando alteri un singolo anello in realtà stai alterano tutta la catena».

Ecco perché i tonni stanno cambiando rotta, evidentemente in cerca di cibo e di condizioni di vita migliori. «A chi mette in dubbio gli effetti dei cambiamenti climatici vorrei ricordare che anche modifiche di pochi centesimi di grado impediscono la riproduzione di alcune specie – spiega il presidente del consiglio scientifico di Slow Fish, Silvio Greco – i pesci hanno finestre riproduttive molto precise e quindi l’aumento di temperatura che si è verificato nel Mediterraneo sta causando danni enormi. La comunità scientifica non ha ancora gli strumenti per capire esattamente quello che sta accadendo, ma i segnali che registriamo sono innegabili».

SENZA DIMENTICARE che il fitoplancton, cioè la biomassa vegetale del mare, ci fornisce il 50% dell’ossigeno di cui abbiamo bisogno per vivere, ed è quindi essenziale alla nostra sopravvivenza, mentre i mari vengono sistematicamente usati come discarica di ogni tipo di inquinanti, in primis la plastica, e le risorse ittiche sovra sfruttate oltre ogni ragionevole limite. «L’opinione pubblica associa l’ossigeno ai polmoni verdi della terra, alla foresta Amazzonica, e troppo spesso si dimentica del ruolo del mare, così essenziale, eppure res nullius, mentre la comunità scientifica che se ne occupa viene ignorata», è lo sfogo di Greco.
Come conferma un think tank indipendente con base a Londra, New Economics Foundation (NEF), molto attento alle risorse del mare: nel suo ultimo report Landing the Blame, ha calcolato che nel periodo 2001-2018 le quote di pesca UE sono state fissate per i due terzi al di sopra dei limiti indicati dagli esperti. NEF denuncia anche che le quote vengono negoziate a porte chiuse nel Consiglio Europeo dei ministri della pesca, senza trasparenza e senza una visione a lungo termine sulla sostenibilità delle risorse ittiche.

UN MARE GIA’ FIACCATO dai cambiamenti climatici non può essere continuamente sovra-sfruttato. «Ma è quello che accade per un errore culturale e politico di questa Europa – spiega Greco – nel Mediterraneo sono presenti molte specie, circa 500, con un numero relativamente basso di individui, mentre nel Mare del Nord sono presenti poche specie con un alto numero di individui. Il sistema delle quote potrebbe funzionare al Nord, ma non nel Mediterraneo. A questo aggiungo che dei 22 paesi rivieraschi, solo 7 sono comunitari e condividono un certo numero di regole, mentre gli altri non hanno nessun tipo di vincolo».
Nelle acque internazionali vige la legge della giungla. «Il grande problema è che i mari vengono sfruttati con una logica di rapina – spiega Danovaro – chi ha la tecnologia, cioè le grandi flotte della pesca industriale, prende tutto, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, determinando una grande sperequazione delle risorse. Il 90% delle risorse ittiche si trovano nel mare profondo, sotto i 200 metri, e le grandi flotte vanno a cercare il pesce sempre a maggiori profondità perché in superficie scarseggia. Questo non fa che aggravare la situazione: ricordiamoci che la parte superficiale del mare non può vivere senza le risorse che provengono dagli abissi, al mare bisogna guardare con una logica tridimensionale».

PIANGE IL PIATTO DEL PESCE e in tavola ormai arriva quasi soltanto quello allevato in acquacoltura. Soluzione o ulteriore piaga del mare? Greco è categorico: «Quando 12 mila anni fa noi esseri umani abbiamo capito che potevamo allevare animali per procurarci la carne, abbiamo selezionato una quindicina di specie con una caratteristica specifica: non erano carnivore. Non si capisce perché per produrre pesce dobbiamo allevare orate, spigole o salmoni che sono carnivori e per crescere hanno bisogno di altro pesce. Può essere una soluzione? No, infatti l’acquacoltura industriale utilizza come mangimi sempre meno farina di pesce, costosissima, e sempre più scarti di lavorazione dei macelli, perché senza proteine animali questi pesci non crescono». Diverso il caso dell’allevamento dei molluschi, dalle cozze alle ostriche, che si nutrono di plancton e puliscono il mare.

Danovaro fa un esempio illuminante per sottolineare quanto la catena alimentare del mare sia molto diversa da quella terrestre: «Quando mangiamo un palombo o una ventresca, che sono squali, è come se mangiassimo una tigre o un’aquila reale, che sono predatori di vertice, in cima alla catena alimentare».

PER AFFRONTARE I COLOSSALI PROBLEMI che gravano sul Mediterraneo, come sugli oceani, Slow Fish riunisce oggi a Genova la comunità scientifica internazionale, rappresentanti dell’industria e della politica per ragionare su possibili interventi. «E’ evidente quello che dobbiamo fare: smettere di sversare nel mare ogni tipo di inquinanti, a cominciare dalla plastica, che è un problema vero, considerando che solo il 3% galleggia e il resto si deposita sui fondali. Già troviamo frammenti di plastica nei fegati del pesce sciabola» dice Greco. Le proposte che emergeranno oggi nel convegno verranno scritte nella «Carta di Genova» che verrà sottoposta al governo.

La buona notizia è che il mare si può «restaurare» e che possiamo accelerare i processi naturali di ripristino. «L’industria del futuro deve essere quella del recupero del capitale naturale che abbiamo danneggiato – dice Danovaro – invece di cemento, costruiamo habitat che ci rendono notevoli servizi ecosistemici. Essere sostenibili non basta più: bisogna dedicarsi al restauro ecologico, con professionalità e investimenti, come abbiamo iniziato a fare a Bagnoli».

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