Le carrozze di terza classe del treno Dnipro-Lviv sono piene di soldati in licenza. Il viaggio è lungo 19 ore, e altre 19 ce ne vorranno per tornare, e dal momento che i giorni di libertà non sono mai più di quattro o cinque ciò significa che questi ragazzi trascorreranno 48 ore a casa e le altre 48 a sonnecchiare sui pancacci duri e tremolanti delle ferrovie ucraine.

TUTTAVIA, NESSUNO DI LORO rinuncerebbe mai a questa opportunità. «Rivedere casa mia…», sospira Dimitri, che fino all’altroieri dormiva nel fango delle trincee di Pokrovske. Con sé ha un sacchetto di pane nero, qualche fetta di salame industriale e una bottiglietta di plastica piena di whisky.

Beve per dimenticare, come tutti i reduci del Donbass. I volti dei commilitoni seduti accanto a lui sono tutti scuri e silenziosi. Nessuno ha voglia di parlare, nemmeno di cose leggere – e dopo neanche un’ora la bottiglietta è già vuota.

Così si viaggia, sugli interminabili convogli che conducono verso l’occidente. Lì, a Lviv (Leopoli), la vita scorre più o meno normale. Si può sorseggiare una birra seduti a un bar, i ristoranti sono aperti e i teenager vestono alla moda, con le magliette risvoltate e i tatuaggi in bella mostra. Il Donbass, visto dall’ovest, appare quasi come un concetto lontano e persino un po’ assurdo, la cui esistenza è certificata solo dalle prime pagine dei giornali e dalle continue immagini trasmesse in tv.

Eppure il Donbass esiste, e nel Donbass oggi si muore e si ammazza senza tregua. Domenica nella città di Bakhmut – a meno di sette chilometri dalle linee russe – i cannoni hanno tuonato a ripetizione per tutto il pomeriggio.

LA GENTE ORMAI non ci fa più caso, perché vedere una bomba cascare tra i palazzi, da queste parti, è un po’ come da noi assistere al passaggio di un tram. Cose di tutti i giorni, cose che capitano e amen. L’altro ieri i militari di Kiev hanno istituito una serie di nuovi posti di blocco proprio nel centro della città. «Perché?», abbiamo chiesto. Ci hanno spiegato che si temono infiltrazioni nemiche oltre le linee di resistenza. «E veramente credete che i russi possano attraversare indisturbati le retrovie del fronte e arrivare fin qui?». «Mozhno – hanno risposto laconicamente i militari -, può darsi ».

In generale, il clima è di grande incertezza e di grande attesa. A un altro posto di blocco i poliziotti ci hanno chiesto di caricare a bordo una donna e di darle un passaggio fino alla stazione degli autobus di Kramatorsk. Irina – questo è il suo nome – era arrivata in città quella mattina stessa, al seguito di un convoglio umanitario proveniente da Kiev. A Bakhmut non ci aveva trascorso più di due ore, che tuttavia sono sono state più che sufficienti per convincerla a mollare tutto e tornarsene a casa. «Non si può stare qui – ci ha ripetuto più volte lungo il tragitto -, ma lo sentite o no, quanto cazzo sparano?». I bus erano già tutti partiti e Irina, pur di andarsene al più presto, ha deciso di farsi 400 km in taxi.

A SIVERSK LA SITUAZIONE è ancora peggiore. Ogni giorno i supporter di Putin annunciano su Twitter la caduta della città. Eppure gli ucraini resistono, seppur a costo di molte perdite, e quotidianamente pubblicano sui social le foto e i video dei mezzi nemici in fiamme. È una strana guerra, di cui tutti sembrano aver voglia di parlare tranne coloro a cui tocca combatterla veramente.

Domenica mattina siamo stati a visitare un poligono di tiro dell’esercito di Kiev. Decine di ragazzetti poco più che diciottenni si addestravano a sparare contro delle piccole scatole di cartone marchiate con una “Z”. Il clima era rilassato, nonostante i continui boati. Qualcuno rideva, altri si facevano dei selfie. Gli unici silenziosi erano gli ufficiali, i quali, radunati in disparte, osservavano con compiaciuto interesse le gesta belliche dei nuovi arrivati.

FINO ALL’ALTROIERI anche questi figli di mamma vestivano alla moda come i loro coetanei di Lviv, e forse la sera andavano a tuonare su Twitter, esultando a gran voce per ogni tank nemico distrutto. Probabilmente tra un mese li ritroveremo sull’accelerato notturno che parte da Dnipro, con una bottiglietta di whisky in mano e gli occhi fissi a guardare il cielo.