«Prima eravamo centinaia qui, ora siamo rimasti in pochi» spiega calmo Dmitry, ufficiale medico ucraino costretto a operare nel sotterraneo di un palazzo bombardato. «Qui ormai non curiamo più nessuno, solo chi è troppo grave per affrontare il viaggio, e anche in quel caso… ci pensano due volte prima di portarli da noi». Strade vuote, niente di aperto, silenzio e tutto intorno un deserto di fango. Era un paese una volta Chasyv Yar, ora è un deserto di fango e macerie.

I VECCHI passavano in bicicletta verso Bakhmut, che dista solo 8 chilometri di lunghissima discesa. Una specie di chiosco arrostiva su un bidone di latta riadattato animali che tra colleghi eravamo sicuri fossero gatti. Un grande ospedale, un centro culturale e un brutto colonnato dai richiami neoclassici che celebrava gli eroi della «Grande guerra patriottica», pochi palazzoni popolari e alle spalle la campagna. La famosa terra nera del Donbass, chernozem come la chiamarono i popoli slavi molti secoli fa a partire dal suo caratteristico colore bruno. Terra fertile e ricca di minerali, per questo ambita per secoli dai signori della guerra dell’Europa orientale, che oggi sembra essere diventata una delle porte dell’inferno. Per i soldati che arrivano qui il monito dantesco «lasciate ogne speranza, voi ch’intrate» sembra una dedica personale. La 5° brigata è qui da molto tempo, Dmitry da sei mesi continuativamente. «Volevo ringraziarvi…» dice sommessamente mentre passiamo tra un’anticamera buia e un corridoio male illuminato ma più caldo, «senza la vostra gente noi qui saremmo stati spacciati tempo fa». Parla piano non perché è stanco, non solo almeno, è un uomo riflessivo e di poche parole ma non freddo. Ci mostra il suo pronto soccorso, due lettini con sopra delle corde alle quali sono attaccate tasche militari con siringhe, lacci emostatici, garze, qualche flacone. Sulla parete dei piccoli scaffali quadrati, molto ordinati e con delle etichette, in quel caos generalizzato vedere tanta cura stupisce. C’è un macchinario per la respirazione ma funziona raramente, il defibrillatore è un lusso. Qui più che altro si punta a fermare emorragie potenzialmente letali, si effettuano fasciature che assomigliano più a imballaggi di pacchi per il trasporto in ambulanza verso gli ospedali nelle retrovie e si trattano le infezioni più gravi. Sulla parete che fa angolo dei disegni di bambini. Sono i figli dei militari che li hanno spediti per posta o regalati ai papà più fortunati che sono potuti andare in licenza, magari proprio per qualche ferita refertata da Dmitry. Il giallo e il blu sono i colori dominanti, c’è qualche scena di guerra ma tanti cuori e qualche parola sull’Ucraina o qualche dedica ai genitori. Mi colpisce in particolare uno di questi disegni: il bambino ha disegnato un carrarmato e sopra la scocca colorata di verde ha scritto in ucraino «Leopard». Quanto i media possono influenzare persino l’immaginazione di un bambino? Così tanto da spingerlo a scrivere il nome dei carri armati che i vertici ucraini hanno chiesto per mesi all’Europa e al mondo. Sopra qualche striscia gialla e blu e in giallo la frase «Verso la nostra vittoria» scritta con la calligrafia incerta di tutti i bambini piccoli. Un Leopard, è questo che la nostra epoca ha offerto come favola al figlio di quel militare e centinaia di migliaia di altri bambini cresciuti tra rifugi antiaerei, paura e stenti.

ALL’USCITA dell’ “ambulatorio” un soldato in sedia a rotelle con una copertina a scacchi sulle ginocchia mi guarda male e fa segno di no alla sigaretta. Mortificato per aver disturbato la sua degenza in quel luogo già terribile ci affrettiamo verso il serafico Dmitry, la nostra guida in quei sotterranei bui. Gli chiediamo se si combatte ancora a Chasyv Yar. Ride e risponde: «sempre». «Ma non sentiamo molti colpi…» proviamo a obiettare. «Meno male, no? Un po’ di pausa non fa male». Guarda l’orologio, «due ore di pausa, mica male» e sorride di nuovo. Mercoledì un missile è caduto a 50 metri dalla porta nascosta del centro di stabilizzazione, «forse il fumo della stufa li ha attirati, forse i droni», ci mostra delle foto del suo ambulatorio completamente sottosopra. Dmitry si è rimboccato le maniche, ha pulito e ha rimesso tutto in ordine dopo che l’ha fatto già per chissà quante volte. Sulle scale che portano all’ingresso il soldato di prima sulla sedia a rotelle è in piedi e fuma, mentre passiamo ridacchia.

DMITRY ci accompagna fuori, alla luce, che qui nelle seconde linee non è mai sinonimo di salvezza. «Però niente foto ora» si raccomanda. Piove nel centro culturale che ha il tetto completamente divelto dai bombardamenti. Penzolano pezzi di calcinacci e qualche vetro dall’ex ospedale, insolitamente grande rispetto alle dimensioni del villaggio. I cani si azzuffano tra le lamiere del municipio e dappertutto fango. Il sole di ieri ha sciolto la neve, troppo presto per la stagione. È difficile anche camminare dritti. Ma la notte fa freddo, lo sa bene Dmitry che si reputa fortunato «noi nel centro stiamo abbastanza caldi, i ragazzi nelle posizioni se la passano molto peggio». Ma la fanteria già combatte? «Per ora no, è più che altro artiglieria. E droni, tantissimi droni». «Cosa ne pensi» chiediamo «se i russi…». Non ci fa finire, capisce al volo. «Sono in guerra dal 25 febbraio 2022, prima Kiev, poi qui, non me ne sono andato finora e non me ne andrò adesso, ma guardati intorno… è dura; però è dura anche per loro stanne certo, ogni passo lo pagano caro».

CI GUARDIAMO intorno, Chasyv Yar sorge su un’altura che domina Bakhmut e la valle verso est. Si diceva che ripiegare qui servisse a controllare il nemico per bersagliarlo con l’artiglieria e contrattaccare in seguito. Ma tra il dire e il fare ci sono in mezzo tonnellate di bombe e migliaia di morti. Sui muri dei palazzi diroccati, a ogni angolo, un ritratto stilizzato dell’ex Comandante delle forze armate Valerii Zaluzhny sorridente e con le dita a “V” in orizzontale nel suo tipico gesto della vittoria. Ironia della sorte, l’unica costruzione completamente integra è il memoriale ai soldati sovietici.