Cannes 2017 ha festeggiato il suo settantesimo compleanno, e la storia del festival, con un programma di Classici composto interamente di grandi film lanciati sulla Croisette, e con una cerimonia seguita da cena per centinaia di star dell’industria del cinema (invitate per l’occasione da tutto il mondo) che, nei decenni, hanno spesso fatto da protagonisti sulla Monte’ de Marche. Ma nemmeno questa costosissima, sfarzosa, (auto)celebrazione poteva competere con l’entusiasmo rituale scatenato dal ritorno di Twin Peaks.

Il culto di Cannes ha dovuto farsi da parte rispetto al culto di David Lynch – non importa se, prima di essere presentati alla Lumiere, giovedì sera i primi due episodi della nuova serie (in Italia in esclusiva su Sky) erano già andati in onda in Usa e circolavano abbastanza visibilmente anche sui siti pirata. Twin Peaks rimane Twin Peaks e, da quello che si è visto di una stagione che prevede 18 episodi, Lynch non solo non ha cercato di aggiornare, o di re-immaginare nulla; anzi: tornando nella cittadina che ha trasformato i boschi del Pacific Northwest in una meta turistica internazionale, il regista/cosceneggiatore (firma tutti gli episodi della nuova serie) si è addentrato ancor più a fondo nella sua dimensione esoterica, giocando proprio sull’elemento rituale e di deja vu.

Venticinque anni sono tanti. Ma la distanza temporale è meno rilevante rispetto all’intensità della rivoluzione attraversata dalla tv da quando, nel 1990 (lo stesso anno in cui Lynch vinse Cannes con Cuore selvaggio, la Abc accettò una sfida allora impensabile per un network, ospitando la visione marziana che il regista di Velluto blu creò per il piccolo schermo. Dai colori, al sound design, alla recitazione, alla struttura drammatica impenetrabile: niente era come Twin Peaks Dopo la Golden age degli anni cinquanta/sessanta, lo sbordamento del cinema (d’autore) nella tv è decisamente cominciato da lì. È da vedere se, nel nuovo panorama pullulante di serie targate con i nomi di grandi registi (Fincher, Scorsese, Luhrman), o stilisticamente e narrativamente innovatrici (Mr. Robot, Legion, Black Mirror, The Americans, Man in the High Castle), Twin Peaks reggerà il confronto, sulla lunga durata.

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Imperturbabile – rispetto alla foresta di nuova tv accessibile persino dalla tastiera dei telefonini- è il mood che Lynch ha scelto per gli episodi 1 e 2, presentati a Cannes e che, a partire dalle note del tema di Angelo Badalamenti, dalla vista delle pinete nebbiose e dello zig zag bianco a nero e dalle tende rosse della Black lodge danno l’impressione di entrare nei sotterranei di una piramide o in una cripta sacra. Lo sceriffo Dale Cooper (Kyle MacLachlan), fedele all’appuntamento datogli da Laura Palmer, 25 anni fa, continua ad essere nella Black lodge. Per uscirne, deve fare in modo di scambiare posto/dimensione con un suo doppio cattivo, foderato in cuoio, e chiaramente dalla parte sbagliata della legge.

Da un affascinante totale notturno dello skylight di New York si vola in una stanza di cemento dove un uomo giovane sorveglia ininterrottamente una scatola di vetro in cui sta uno schermo/oggetto nero da cui potrebbe, o no, uscire qualcosa di molto pericoloso. Il caso criminale scatenante (in una delle scene più comiche e sinistre), non è il ritrovamento del cadavere di una ragazza ma, in South Dakota, a casa di una signora, di una testa e di un corpo decomposti che non appartengono alla stessa persona. «È scomparso qualcosa e devi ritrovarlo» –telefona a log lady al nuovo sceriffo di Twin Peaks. Con questo ritorno così costruito sul rituale di se stesso da sembrare algido (o pigro) è scomparso qualcosa anche della viscerale radicalità che rendeva Twin Peaks tanto sconvolgente. Se la ritroverà nei prossimi episodi è un punto di domanda.